Materia che diventa memoria: un dialogo tra il Barocco e Flavio Favelli

di - 24 Novembre 2022

C’è un ala al secondo piano del Real Museo di Capodimonte molto particolare. Dopo aver attraversato le tavole di Roberto d’Oderisio, del senese Simone Martini e la Flagellazione di Michelangelo Merisi da Caravaggio, ci si imbatte in alcune sale, quasi dei corridoi, che potrebbero disorientare. Fucili da caccia della Manifattura Spagnola, arazzi provenienti dalla Real Fabbrica degli Arazzi, oggetti etnografici provenienti dall’Oceania, regalo del diplomatico Lord Hamilton a Ferdinando IV. Poi, in successione, ritratti della famiglia borbonica, servizi di porcellana esposti come quadri e infine, nella sala Catello (antica famiglia di artigiani), un grande presepe conservato in una vetrina ispirata alle “scarabattole” settecentesche. Ancora non troviamo “Interno con marmi”, l’opera di Flavio Favelli presentata per il nono appuntamento di “Incontri sensibili”, le mostre focus sul contemporaneo del Museo e Real Bosco di Capodimonte a cura di Angela Tecce, Sylvain Bellenger e Luciana Berti.

Caravaggio, La Flagellazione di Cristo

Siamo così davanti a una miscellanea apparentemente di minor valore rispetto agli olii di Ribera, di Guido Reni e Luca Giordano. Eppure, nella mente dei monarchi borbonici, questi erano oggetti prestigiosi, ambiti. Totalmente amati, come il servizio di porcellane dipinto “a collezione di uccelli”, frutto di finissimi procedimenti della Real Fabbrica di Capodimonte, avviata dal re Carlo di Borbone nel 1743 e destinato alla Reggia di Capodimonte, sede di passaggio di numerosi uccelli migratori.

O come il monumentale presepe commissionato dai Borbone e da diverse famiglie gentilizie ai più grandi interpreti di questa arte (Giuseppe Sanmartino, Francesco Celebrano, Angelo Viva). Gusto nobiliare e sensibilità popolare, vera e propria opera site specific di ogni casa napoletana che si rispetti, il presepe si riflette nella “polisemia” di scene e personaggi poveri, umili oppure divini e regali, che soggiacciono tutti alla medesima denominazione, egalitaria e semplice, di “pastori”. È una Napoli di folclore, che avanza tra le stanze reali, di colore domestico, accogliente e familiare, oggetti presenti in ogni casa, ricca o povera, di città o campagna. Aperture di una casato, quello borbonico, amato fino alla nostalgia perché capace di cogliere le idee, gli stili, i costumi di una Napoli vigorosa, creativa, orgogliosa della proprie culture materiali, dei proprio riti, delle proprie visioni.

Domenichino, Angelo custode

Il nostro viaggio nella Galleria Napoletana prosegue fino alle sale 88, 89 e 90 che, nonostante i nuovi allestimenti, hanno mantenuto una disposizione delle opere tale da farle sembrare cappelle finemente ornate. E tra cui spiccano, per vivacità e calore narrativo, due angeli, l’Angelo Custode ritratto dal Domenichino e un Arcangelo Michele in legno di fattura napoletana e del ‘700. Messi a cherubina protezione del Ciborio di Cosimo Fanzago, opera prestigiosa voluta dalle ricchissime monache benedettine del monastero di San Gregorio Armeno e terminata nel 1623 per la Chiesa di Santa Patrizia. Un tabernacolo dalla forma geometrica perfetta, dai marmi policromi e pietre dure, bronzo e rame dorato.  Un oggetto sacro e miracolato perché sopravvissuto alle spoliazioni e deturpazioni delle fastose chiese napoletane del ‘600. Motivi naturalistici, tralci, fiori, uccellini e le prestigiose Virtù, statuette in bronzo dalla vita travagliata, delicatamente distese sui timpani che incorniciano le porticine dell’edicola.

Alla base vi è un’idea totemica, una dimensione del divino gettato tra noi, manipolabile, godibile, perfino gustabile come quella dell’ostia eucaristica, protette nel piccolo gioiello architettonico. E i preziosi materiali non fanno che esprimere la texture della magnificenza, la morfologia minuta ma universale del trascendente. Ma cosa è rimasto di questo mistero, di questa verticalità, di questa divinitas in humanite? È ancora tra noi? Funziona, vibra oppure, ormai, è soltanto un “cippo” dorato e prestigioso, dono di una stravagante lussuosità monastica? Ma soprattutto è possibile riprodurre un linguaggio di humanitas? Può ancora dirci, suggerisci qualcosa?

Flavio Favelli, Interno con marmi, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Foto Amedeo Benestante

È la domanda a cui l’artista Flavio Favelli, di Savigno (Bologna), che da anni riflette sui fragili equilibri tra materia, immaginari e memorie collettive, ha tentato di rispondere oggi, attraverso la sua opera “Interno con marmi”. Così, il gioco di rimandi, di specchi, si ripete anche in queste sale, sotto altre forme. «Credo che proprio nelle distanze e nelle differenze ci siano cose più interessanti da trovare». L’installazione è simile a un’edicola, un luogo di senso che emana essenza e assenza, accogliente ma perduto, come l’angolo di una vecchia casa lasciata nel tempo confuso dello spazio mnemonico. Se risultava impossibile dialogare con la magniloquenza enfatica dei materiali e la retorica del regale e del divino del ciborio, per Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, allora con “Interno con marmi”, è stato necessario andare oltre, scavare con il linguaggio della materia, giocare paradossalmente con la poesia del legno e la prosa del dorato, con il mistero dell’Interno e i vuoti del Ciborio.

Flavio Favelli, Interno con marmi, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Foto Amedeo Benestante

Entrambe le opere infatti sono dei portali verso altri mondi, delle “Stargate” che contengono accessi ora verso il segreto, lo scuro del sacro, ora verso attraversamenti ricchi di sensazioni, impreziosite dalla materia in legno, marmo e malinconia. Se la fugacità barocca di Fanzago è stata intagliata in una magnificenza geometrica quanto cava, in una presenzialità ferma e indissolubile, l’intimità sospesa e sfuggente di Favelli si tramuta in vivo sedimento doloroso. Un lascito che non teme, anzi, auspica il proprio annullamento, la propria dimenticanza, perché proprio essa ne è l’energia pulsante, che si disperde per ricomparire come reminiscenza, aneddoto, come vecchia foto ingiallita. E se il Ciborio parlava una lingua celeste, qui l’unica materia immortale è il bisbiglio, la parola, il dialogo che, nella vecchia dimora, diviene sempre racconto, memoria, storia, perfino mito. Proprio come le antiche case napoletane di un tempo, dove suoni, odori e colori si combinavano in un gomitolo di ricordi. «Un ciborio della contemporaneità», come suggerisce Angela Tecce, presidente del Museo Madre.

Flavio Favelli, Interno con marmi, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli. Foto Amedeo Benestante

L’artista gioca così con gli spazi di un vissuto singolare, esprimendone la quadridimensionalità della nostalgia. È dunque un’opera di solitudine, di emozione interiore, eppure di spazialità ampia, da rivivere con altri. Cosa rimarrà di questo Favelli? «Vendere o distruggere», suggerisce sempre l’artista. Liberarsene in qualche modo. Ma è proprio così?

Ph. Amedeo Benestantemore

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