Quell’instancabile Viaggiatore assoluto di Michele Zaza (Molfetta, 1948) approda – per la prima volta – da ABC-ARTE, con la curatela di Flaminio Gualdoni. Non c’è bisogno di lunghe presentazioni: Zaza ama una serialità fotografica sospesa, allegorica, di cui essere protagonista assieme alla propria famiglia è conditio sine qua non. È una serialità molto “seria”, che nel corso degli anni però s’è leggermente sciolta, rendendosi a visivamente meno “impostata”.
Un bene? Un male? Propendiamo per il “chissà” (ma aggiungiamo che mantenere un certo formalismo è utile a non precipitare nel mainstrem visivo). Ben più importante è pensare che ci sia un meccanismo comune, più o meno trasversale all’anno di produzione, dal nome molto poco tecnico di “trova le differenze”. Capiamoci meglio: nelle sequenze di Zaza c’è sempre un percorso, un lavoro d’evoluzione iconografica che non si palesa mai troppo. Costringendoti a star lì, a domandarti se sei tu che non vedi, oppure è lui che reitera immagini senza aver cambiato una virgola. Gioco non proprio superfluo, sia chiaro, perché porta in primo piano l’immagine come veicolo narrativo; mettendo lo spettatore in condizione di cimentarsi realmente con la narrazione stessa. Di prestarle un’attenzione effettiva insomma, quella che fa la differenza tra vedere e osservare.
Carismatico “regista” dei propri progetti, Zaza peraltro è uno che con la buona fattura delle immagini ci sa fare, studiandosi sempre con acredine il pathos generale dato da inquadrature, luci e piani prospettici. Molto Dario Argento di Profondo Rosso. Tanto “ultimo dei caravaggeschi”. Ma se Caravaggio e proseliti avevano chiaro in testa d’essere mediamente chiari (nei loro chiaroscuri), mutatis mutandis, Zaza pare parlare in un dialetto che non conosciamo; ristretto in un ambito famigliare che la inizia e là finisce, tra una selezione di segni e simboli che restano sempre sul “chi va là” andante. L’universo di Zaza è fatto di magie e onirismi che creano un’atmosfera, e possono essere pure interessanti da vedere. Ma lasciano pure con più d’un “perché” incastrato tra i denti.
Il rovescio della medaglia è vedere in Zaza un ottimo performer. Un centauro della medialità foto-performativa, dove la forza statica di ogni progetto visivo è uguale e contraria al proprio contenuto ritmico. Cosa che negli anni ’70 ha dato buoni risultati, come attestano pietre miliari del tipo Tempo e mimesi o Ritratto celeste. L’equazione in fondo è estremamente semplice, oltre che decisamente in linea con quel periodo storico: metti insieme il “niente di eccezionale” per dare vita al “niente di normale”, bucando il pensiero convenzionale con gli elementi semplici di una ideazione di derivazione poverista.
Gli anni ’80, ’90 e 2000 sono l’upgrade dell’equazione di cui sopra, tra effetti cromatici più briosi e costellazioni di molliche di pane. Fino all’inedito di questa personale, Pensiero cosmico del 2021. Un tre pezzi in verticale dove Zaza si presenta fedele a sé stesso. Abbastanza, tanto, troppo. Però ci sono le bolle di sapone, che detta così sembra una presa per i fondelli. L’elemento più banale di questo mondo (ma non di quello dell’artista) è anche perfettamente nelle corde della dinamica narrativa zaziana: fugge dall’immobilità, pompando di un dinamismo tipicamente performativo l’impianto totale.
Magari anche voi sarete contenti, come chi scrive, di trovare in mostra Cielo Abitato del 1985: un viaggio che parte dallo sguardo della figlia dell’artista, si sposta sull’artista stesso in secondo piano. Esce quindi dalla cornice, allegoricamente a forma di casa, ed esplode infine tra le piccole sculture dipinte che sovrastano la stessa. Più che un’installazione una coreografia. Forse lo Zaza più inclusivo di sempre.
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