Palazzo Pretorio è un piccolo, grande museo. Nel cuore pulsante della cittĂ di Prato, a due passi dal Duomo, il palazzo, dove sono sedimentate tracce visibili di secoli di storia, architettura e usi diversi â le prime notizie documentarie dellâedificio come palazzo pubblico risalgono al 1284, quando il Capitano del Popolo Francesco deâ Frescobaldi ne fece lâabitazione dei magistrati â conserva alcuni capolavori, da Donatello a Lippi, passando per i pratesi Filippino Lippi e Lorenzo Bartolini.
Rita Iacopino, direttrice del museo, lo cura con la stessa attenzione che una buona madre premurosa ha verso i propri figli. Dopo la riapertura del restaurato palazzo nel 2013 con lâesposizione Da Donatello a Lippi, nellâaprile 2014 sâinaugura lâattuale allestimento del Museo. Un allestimento rigoroso, ben congeniato, dove le opere sono ben illuminate e il percorso è lineare. Per spezzare questa linearitĂ il museo ha deciso di fare un salto di qualche secolo e aprirsi al contemporaneo. Lo aveva fatto una sola volta nel 2015 col progetto âSynchronicityâ. Oggi però allâultimo piano, tra le sculture di Lorenzo Bartolini, si distinguono le opere Venere Maria â Nudo color seppia, serigrafia su acciaio inossidabile lucidato a specchio di Michelangelo Pistoletto e la piccola ma preziosa scultura blu Victoire de Samothrace di Yves Klein, donate questâanno da Sandra e Carlo Palli e collocate permanentemente nel Museo.
Nel pensiero comune e popolare lâarte del passato è sempre stata vista come qualcosa di piĂš âsempliceâ da comprendere perchĂŠ vi sono spesso elementi riconoscibili, chiari riferimenti religiosi e sociali, rappresentazioni verosimili e per lo piĂš figurative. In realtĂ molti di quei quadri accorpano in una sola tela decine di simboli, numerosi significati nascosti, metafore, analogie, riferimenti ai contesti storici e sociali del tempo. Leggere un quadro in profonditĂ significa conoscere lâiconologia, lâiconografia, collocarlo nella sua epoca. Di contro, paradossalmente, molte opere dâarte contemporanea, ai piĂš indigeste e non di immediata apprezzabilitĂ , sono molto piĂš semplicemente âdecifrabiliâ perchĂŠ spesso è lâidea a prevalere e la resa formale non è affatto complessa e quasi sempre, nel medium e nei materiali, piĂš vicina a chi le osserva. Ma ciò che oggi è archiviato nella memoria storica è stato, a suo tempo, e a sua volta contemporaneo. Lâopera dâarte nel XX e XXI secolo ha spesso un effetto sorprendente, disturbante, conturbante, scioccante, provocatorio.
Ma che cosa succede quando le opere di ventidue artiste di diversa provenienza geografica scelte per essere accolte tra capolavori storici riconosciuti non âsprigionanoâ questa forza dirompente? Che cosa succede, ad esempio, se il ponte bruciato Burned Bridge (2011) di Marianne Vitale sembra quasi un ostacolo alla contemplazione e alla meraviglia delle annunciazioni di Giovanni da Milano e Filippo Lippi e bottega, che lo sovrastano da ogni lato? Lâartista americana descrive la sua opera cosĂŹ: âLa scultura Burned Bridge trasforma una metafora morta e una catasta di legna in uno spettro imponente. Il fuoco permette una rapida trasformazione. Disintegra la vecchia narrazione e ricostruisce la soggettivitĂ slegata da veritĂ precedenti. Creazione, obliterazione, purificazione. Unâevocazione di una cultura in disordine e regressione, ma con un disperato bisogno di rinnovamento.â Ma il suo ponte che dialogo instaura con le opere nella sala o che significato assume allâinterno della mostra? âĂ un ponte che connette due luoghiâ, commenta il curatore, âNellâAnnunciazione, il ponte tra la divinitĂ e la realtĂ â.
Ma è un ponte bruciato, depotenziato, che non ha piĂš alcuna soliditĂ . Anzi è estremamente fragile. Mentre il ponte tra divino e reale si chiama fede ed è âmarmoreaâ.
Oppure le due fotografie di Roni Horn che rimettono in scena il ruolo di Marie Latour â dalla vera storia di Marie-Louise Giraud, una delle ultime donne ad essere ghigliottinate in Francia nel 1943 per essere una abortista â che Isabelle Huppert ha interpretato nel film Un affare di donne di Claude Chabrol del 1988 hanno qui lo stesso potere filmico o questâultimo sarebbe amplificato se quelle immagini fossero collocate, in tutta la loro angosciositĂ in un algido e asettico white cube metropolitano?
Sono alcuni degli interrogativi che mi sono posto nel visitare la mostra âHI WOMAN! La notizia del futuroâ curata da Francesco Bonami che ha scritto: âA Palazzo Pretorio non ho voluto cercare un dialogo, inevitabilmente impari da una parte e dellâaltra, con le opere del museo. Ho provato a costruire, pur sapendo che è una contraddizione in termini, la casualitĂ di un incontro. Opere che sâincontrano casualmente e scoprono sempre casualmente di avere qualcosa in comune. Non tanto dal punto di visto estetico o di contenuti ma di sensibilitĂ . Incontri che non necessariamente si trasformano in relazioni. Ă semplicemente una mostra con 22 artiste che anagraficamente sono nate donne. Condividono quindi soltanto un destino.â Prima di visitarla mi sono andato a risfogliare la pubblicazione âLâaltra metĂ dellâavanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storicheâ di Lea Vergine ma poi non lâho dovuta scomodare. Non mi sono serviti neanche lo SCUM Manifesto di Valerie Solanas che nel 1967 proponeva provocatoriamente lâeliminazione del maschio e che sparò, un anno dopo, ad Andy Warhol o gli studi di Judith Butler, Donna Haraway, Sadie Plant o Silvia Federici. PerchĂŠ come afferma lo stesso curatore âquesta mostra si guarda bene dal voler essere una mostra sulla donna, sul femminismo o politicamente corretta.â Non posso che concordare!
Ho pensato allora di cercare riferimenti precisi tra il concetto di Annunciazione e il rapporto con le opere selezionate, riferendomi a quanto scritto sempre dal curatore: âChe uno creda o non creda poco importa. Lâannunciazione a Maria dellâangelo Gabriele della sua gravidanza rimane, reale o meno che sia, unâimmagine cardine dellâiconografia di una buona parte del genere umano. Maria si trova depositaria del futuro del mondo. La Vergine si assume la responsabilitĂ di dare alla luce il redentore GesĂš senza però potere condividere il piacere di questa responsabilitĂ . Si potrebbe dire che la sua verginitĂ misteriosa è anche frutto di sospetto da parte di chi la circonda e quindi per lei fonte di senso di colpa. Una condizione che la donna ha sopportato per unâinfinitĂ di tempo. Creatrice assoluta senza mai poter avere il credito di questa sua immensa creatività ⌠Gabriele, lâangelo, arriva e non le dĂ scelta. Una mancanza di scelta che poi nella storia della societĂ umana diventa una condanna ed una tragediaâ.
Il curatore non ha quindi voluto cercare un forzato dialogo con le opere del museo. Allora che cosa manca a questa mostra? Manca la forza dirompente di opere dâarte contemporanea potenti, iconiche. Che creino una frizione e che paradossalmente riescano a distrarre lo sguardo del visitatore incollato ai meravigliosi quadri del passato. PiĂš di 1/3 dei lavori esposti in mostra provengono da un prestito della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, lâaltra gran parte da collezioni private, per lo piĂš italiane. Per fronteggiare capolavori del passato, bisogna fare un lavoro certosino, magari elemosinando sulla quantitĂ per puntare tutto sulla straordinarietĂ . Persino lâorso giallo di Paola Pivi in piume di canarino, da solo, sembra non riuscire a fronteggiare le Annunciazioni di Giovanni Bilivert e Giovan Domenico Ferretti. Unire il moderno e contemporaneo è una sfida affascinante, ma difficile, come altrettanto complesso può risultare lâallestimento, considerata la densitĂ , fisica e contenutistica, delle opere giĂ presenti nelle sale. Il rapporto tra passato e contemporaneitĂ però ha delle enormi potenzialitĂ : può creare cortocircuiti inediti, sorprendenti, persino perturbanti. Questa volta ha vinto il museo e la sua collezione. âHi WOMAN!â ha però raggiunto un obiettivo importante: far conoscere lâarte moderna agli amanti dellâarte contemporanea, viceversa avvicinare gli appassionati e gli studiosi dâarte moderna a quella contemporanea. In fondo, ha vinto un poâ anche la mostra.
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