Eliott Paquet, dettaglio
Eliott Paquet (Parigi, 1990) prende spunto da una celebre frase di Victor Hugo (1802–1885) per sviluppare la sua prima personale italiana, Hide & Sick (Ceci tuera cela – Part II), ospitata da Studiolo Bureau, una delle attività di Cabinet a Milano diretta da Antonio di Mino e Mariachiara Valacchi fino al 2 novembre. “Ceci tuera cela” ovvero “questo ucciderà quello” è l’espressione pronunciata da Claude Frollo, l’arcidiacono di Notre-Dame de Paris (1831) mentre confronta un libro con la cattedrale, una riflessione sul passaggio di consegne tra architettura e parola scritta come mezzi di trasmissione del sapere. Paquet riparte da quel passaggio simbolico tra materia e linguaggio e lo porta nel presente, mettendo a fuoco un altro tipo di conflitto, quello tra produzione seriale e lavoro artigianale, tra l’apparente trasparenza del progresso e le sue zone opache.
Hide & Sick è il secondo capitolo di un progetto espositivo iniziato nell’autunno 2024 a POUSH, spazio dedicato alla creazione contemporanea situato ad Aubervilliers, nella banlieue nord-est di Parigi. Un tempo polo industriale, oggi il quartiere attraversa una fase di transizione. Multietnico, densamente abitato, costellato di teatri, atelier, graffiti lungo il canale Saint-Denis, è al centro di un processo di riqualificazione legato al piano del Grand Paris. Proprio qui ha il suo studio, che è anche luogo espositivo e sede di progetti. Non un caso che in questo paesaggio in bilico, attraversato da forze contrapposte, nasce il primo nucleo del progetto Ceci tuera cela, un’indagine visiva sui cantieri, sulle trasformazioni urbane, sulle presenze che resistono all’omologazione.
Nel suo immaginario creature grottesche come le stryges, ispirate alle chimere di Viollet-le-Duc, abitano stazioni metropolitane, ruderi, scorci in attesa di destino. I suoi lavori si muovono tra ironia e inquietudine, portando alla luce tubature, cavedi, condutture, resti, ciò che spesso rimane fuori campo. A Milano l’artista si misura piuttosto con il linguaggio del modernismo, tra superfici lucide, vetro, acciaio, e geometrie funzionali. Le sue sculture, pensate per lo spazio specifico di via Goldoni 15, derivano da un’intensa combinazione di tecniche artigianali (intaglio, impiallacciatura, finiture a cera) e procedimenti industriali mutuati dalla carrozzeria o dal design tecnico, utilizzando legno massello, alluminio anodizzato, resine e vernici spray.
Frammenti dipinti ad aerografo, sottoboschi, segmenti di anatomie meccaniche, si insinuano nelle opere come tracce di un mondo sotterraneo. Al centro di questa nuova tappa compare la figura ambigua e disturbante del ratto. Come scrive Gabriella Gasparini nel testo che accompagna la mostra, il ratto è infiltrato e sopravvissuto, è simbolo di ciò che la città rimuove ma non elimina, una presenza borderline che percorre le giunture dell’architettura, le crepe del nostro tempo. Non è più solo un parassita, ma una guida involontaria, ci ricorda che l’accessibilità è una promessa fragile, e che la complessità si nasconde spesso dove nessuno vuole guardare. Paquet, come il ratto, si muove tra le fessure, e ci obbliga a cambiare sguardo tutte le volte.
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