Gemito: al Museo di Capodimonte, si riscopre il Maestro dell’arte del reale

di - 20 Ottobre 2020

È stato un impegno gravoso ripetere a Napoli il grande successo che ha avuto a Parigi la mostra delle opere di Vincenzo Gemito (1852-1929), un autore più conosciuto in Francia che in Italia: qui sono note soprattutto le repliche tardive dei suoi bronzi, quelle che invadono il mercato e i salotti buoni e che «hanno cancellato, per non dire umiliato, il suo genio», come ha sottolineato il direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, Sylvain Bellenger.

Peraltro non era opportuno dare alla mostra napoletana lo stesso titolo di quella parigina, “Le sculpteur de l’àme napolitaine”, considerando che qui si sarebbe potuta imbattere nell’atteggiamento spocchioso dei tardivi eredi di quei cosmopoliti ottocenteschi, diventati poi nazionalisti savoiardi e, infine, di nuovo cosmopoliti, che ancora, soltanto a sentir parlare di napoletanità, storcono il naso. Così, per la mostra al Museo di Capodimonte, si è scelto il titolo, “Gemito: dalla scultura al disegno”, che evidenzia la duttilità tecnica di Vincenzo Gemito, per farlo rientrare, seppure dalla porta di servizio, tra i grandi artisti e renderlo meritevole di essere celebrato come «il più grande scultore dell’Ottocento» da un suo, pure illustre, collega, il bergamasco Giacomo Manzù.

Così questa mostra al Museo di Capodimonte rivela un’intelligente comprensione del pubblico contemporaneo da parte dei curatori Jean Loup Champion (è a sua cura anche il pregevole catalogo), Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, e anche la loro colta sensibilità artistica, dacché, per evidenziare l’originalità e il valore di Vincenzo Gemito, hanno opportunamente paragonato le sue opere a quelle di altri autori, in un allestimento chiaro, sobrio ed elegante.

All’epoca di Gemito, in Francia c’era il Naturalismo engagé di Emile Zola e quello intriso di sentimento romantico di Victor Hugo. In Italia, con l’impersonale linguaggio letterario del Verismo, i siciliani Luigi Capuana e Giovanni Verga ritraevano le tragedie psicologiche o le miserie più nere, senza possibilità di riscatti.

Ritraggo ciò che esiste: Vincenzo Gemito al Museo di Capodimonte

Nella scultura, accanto a quella ufficiale classicamente celebrativa, c’erano tendenze diverse, che nella mostra sono rappresentate. Qui, in prima fila, c’è il bronzetto de Il pescatore napoletano addormentato, immaginato come una tipica pastorelleria dal francese Antonin Moine (1796/1849), opportunamente collocato accanto a dei pastori napoletani settecenteschi. C’è la duttile silhouette di un’allungata figura femminile, immaginata da Edgard Degas (1834/1917), e la visione impressionista della testa di un monello, fatta di giochi di luce, di Medardo Rosso (1858-1928). Ci sono le opere degli scultori sodali di Gemito, come I Parassiti, del napoletano Achille D’Orsi (1845-1929), che ribadisce la gravità della massa scultorea.

E c’è la Rissa di Ettore Ximenes (1855-1926), che esprime la concezione, che aveva il suo autore, dell’arte verista: la copia esatta della realtà, fatta in un materiale adatto, in questo caso il gesso. Lo stesso Ximenes, in uno scritto dell’età matura, riportato nell’interessante articolo di Maria Tamajo Contarini per il catalogo della mostra, parla della scultura di Gemito, tanto diversa dalla sua: «Gemito aveva una tecnica sua speciale: improntava…e col dito sapeva ricavare effetti di un’evidenza impressionante…con una plasticità che pareva carne. Lo ammiravo ma non ne ero persuaso che quella fosse scultura».

In quanto a Gemito, della sua arte diceva: «Ritraggo quello che esiste», non un aspetto del vero ma il vero nella sua interezza. E così, dal profondo dei secoli, richiamava una voce che diceva che «il vero è ciò che esiste» e «la realtà è un tutt’uno indivisibile» (Parmenide). Il suo vero è reso da quegli scugnizzi in terracotta che conosce nell’intimo, da dentro, perché scugnizzo lo è stato anche lui. Da sé, dalla strada, Gemito ha imparato a osservare la vita e, dal Museo Archeologico, l’universalità dell’antico. Il successo gli venne da Il giocatore, appunto uno scugnizzo, un’opera, ora in mostra, realizzata all’età di sedici anni, che fu premiata da quella Promotrice di Belle Arti di Napoli, sorta in continuità con le Biennali borboniche che, nate nel 1826, finirono nel 1859, con la morte del Re Ferdinando II di Borbone.

Foto di Giovanna Garraffa

In mostra, vi sono anche le teste, in terracotta, di altri meravigliosi scugnizzi, vive testimonianze del vero, e anche di F. P. Michetti, Domenico Morelli, Mariano Fortuny e Giuseppe Verdi, personaggi dei quali Gemito ha afferrato l’anima ed è questa che detta la forma all’opera e le dà vita. Gemito lavorava con i suoi amici in certi locali del monastero di Sant’Andrea delle Dame, una sorta di atelier, «una stamberga» racconta Ximenes, il quale scrive che «si stava in piena bolletta», si fumavano mozziconi di sigarette, «massimo godimento», si mangiava «un piatto di maccheroni senza formaggio…arrabbiati nell’olio» e, per trovare certi effetti di luce, «si andava di notte, al chiaro di luna, a Mergellina…oh belle notti serene, inebriati dall’acuto odore delle alghe marine».

Così Gemito vive felicemente il mondo marinaro dei Luciani (gli abitanti del Pallonetto di Santa Lucia) e crea il suo vitalissimo Pescatore, uno scugnizzo anche lui, che, seduto sulla riva, le dita dei piedi aggrappati agli scogli, trattiene e sente tra le mani i pesciolini guizzanti, somiglianti a quelli nelle pitture del napoletano Giuseppe Recco (1634-1695), mentre una nassa, a lui così familiare, è realizzata con una sorta di affettuosa attenzione che può ricordare quella  ritratta nella sedia impagliata della camera dell’olandese Vincent Van Gogh.

Foto di Giovanna Garraffa

La follia del vero umano

Questo è il mondo di Gemito che, con il suo Pescatore, ottiene grande successo a Parigi. Francesco II di Borbone, l’ultimo Re di Napoli, a Parigi in esilio, gli commissiona un’opera. E Gemito, tornato a Napoli, per lui realizza, con l’impegno di circa un anno, un altro capolavoro: l’Acquaiolo. Ma, nel frattempo, ha incontrato Mathilde Duffaud e se ne innamora. Ma Mathilde muore e Vincenzo, dopo aver consumato il suo dolore, si innamora di un’altra modella, Anna Cutolo, la bella Nannina, e la sposa.

Foto di Giovanna Garraffa

E poi ha una crisi terribile. Ernest Meissonier, suo grande amico, la attribuisce all’ordine del re Umberto di Savoia di realizzare una statua di Carlo V, da porre sulla facciata del Palazzo Reale di Napoli. Una grande statua di marmo che esalta il Potere. Né il soggetto né il materiale sono nelle sue corde. Si infuria contro la statua, contro se stesso che si sta adeguando al mondo ufficiale, mentre lui si sta perdendo. Lo considerano pazzo e lo rinchiudono in clinica.

Scrive: «Vomero 30 agosto 1887. Dichiaro semplicemente, dovendo uscire a forza dalla mia camera da lavoro, che… restano padroni di tutta la mia roba…Nannina Cutolo, mia compagna, come parte maggiore, Peppina Gemito, nonché Mastrociccio e Donna Peppina…Esco perché il Capo della Giustizia mi ha mandato a prendere. Perché? Non lo so». Uscito poi dalla clinica, si rinchiuderà da sé nella sua casa di via Tasso, in un moderno quartiere borghese.

Vincenzo Gemito, Autoritratto, 1886

Ma forse non è mai stato pazzo. Non sembra pazzo un uomo che scrive con tanta lucidità e che è così legato ai suoi affetti: la sua compagna, sua figlia, i suoi genitori adottivi. Non è pazzo l’artista che ha avuto la capacità di scoprire l’anima delle persone ritratte e di renderle con verità, semplicemente, senza personali stilizzazioni. Se pazzia significa alienazione, forse non è lui che è alieno al mondo ma è il mondo che è diventato a lui estraneo. E forse Gemito ha intuito il futuro di un mondo alieno e di essere ormai l’ultimo scultore del Vero Umano.

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Tag: Carmine Romano Jean Loup Champion Maria Tamajo Contarini museo e real bosco di capodimonte napoli sylvain bellenger vincenzo gemito

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