Categorie: biennale 2003

E’ la Biennale dei curartisti

di - 12 Giugno 2003

Come hai impostato il tuo lavoro di curatore?
Agli artisti ho posto un’unica regola: niente muri, niente vetrine, niente piedistalli, niente video, niente foto. Poiché questi elementi assumono la valenza di una cornice d’oro capace di far sembrare arte tutto ciò che vi s’inserisce. Quando si tratta con oggetti quotidiani è importante, secondo me, mostrarli come sono nella vita reale. Anche se siamo in un grande edificio e all’interno di una grossa istituzione come la Biennale di Venezia, ciò non di meno quando il visitatore arriva in questi spazi non pensa solo all’arte, pensa a capire, si fa delle domande, fa delle esperienze. Dunque penso che sia molto importante mettere da parte il più possibile la scenografia, e per questo ho messo queste regole. E agli artisti sono piaciute.

Che criterio hai usato per selezionare gli artisti?
E’ molto tempo che lavoro con gli artisti che espongono qui, sono quattro messicani, un americano e un francese, condividiamo tutti un approccio simile al modo di fare arte. Tempo fa ho partecipato a un work shop con Damian Ortega e Abrham Cruzvillegas, io ero il più vecchio e dunque fungevo un po’ da maestro. E’ molto importante che gli artisti lavorino insieme, soprattutto in Messico dove non ci sono buone scuole d’arte, o forse in generale le scuole d’arte non sono mai buone, sono sempre limitate, è per questo che gli artisti devono costruirsi la propria educazione personalmente fuori dalle scuole, e questo avviene solo lavorando con altri artisti. Non mi sono comportato come un curatore, non ho viaggiato per cercare gli artisti, conoscevo già queste persone, conoscevo già il loro lavoro, sento che condividiamo molto, loro hanno avuto fiducia in me e hanno deciso di partecipare a quest’esposizione.

Che idea c’è dietro il titolo Il Quotidiano Alterato?
Ogni giorno gli artisti hanno a che fare con degli oggetti con cui giocano, che modificano cercando di capirli, su cui sviluppano alcune idee, a volte non lo facciamo per un’esposizione, ma semplicemente per il desiderio di esplorare la realtà che ci sta intorno, per capire la qualità degli oggetti quotidiani che circondano il corpo, la politica e l’economia nella vita di tutti i giorni. L’esposizione prende alcuni di questi oggetti e li mostra qui stimolando lo spettatore a collegarli con il proprio vissuto.

Che tipo di connessione esiste tra i diversi lavori?
Lo spazio aperto permette, in un certo modo, di vedere le opere non solo in successione, ma come un insieme. Il comune denominatore di tutte le opere è di essere definibili come “oggetti di conoscenza”, perché su di essi gli artisti hanno agito come degli scienziati, mescolando, combinando, smontando, per arrivare a un nuovo “segno” a un nuovo “significato”, a una nuova situazione che ci permetta di capire meglio il mondo, di avere una visione più poetica del quotidiano.

Com’è stata l’esperienza di curatore alla Biennale di Venezia?
Come ti ho detto non mi sento un curatore nel senso classico del termine e non mi sono comportato come tale, non vi è alcun elemento di museologia, è stato un lavoro di gruppo, certo, io scelgo dove va messa un’opera, e ho scelto alcuni dei lavori, il punto di vista è sempre quello dell’artista. Non è la prima volta che faccio il curatore, ma spero che sia l’ultima, – ride e poi continua – troppo lavoro, troppa burocrazia.

Credo comunque che tu sentissi in qualche modo l’esigenza di mostrare il lavoro degli artisti in cui credi…
E’ vero, ritengo che alcune delle mostre più importanti della storia siano state fatte dagli artisti stessi che si univano ed esprimevano assieme il loro pensiero, come per esempio i Surrealisti. Ci sono momenti in cui l’artista sente la necessità costruire la propria esposizione, perché non tutte le istituzioni o non tutti i curatori possono capire certe opere. A volte non si può aspettare che qualcuno arrivi a mostrare ciò che fai e allora lo devono fare gli artisti stessi.

Potresti parlarci un po’ del tuo lavoro al Padiglione Italia: Ombra tra cerchi di aria?
Nel mio lavoro mi piace concentrarmi sempre sullo specifico, uso sempre situazioni preesistenti per sviluppare un’idea. In questo caso il patio di Carlo Scarpa, mi interessava moltissimo, in primo luogo perché è esteticamente e concettualmente bellissimo, poi perché è una struttura abbandonata, poco conosciuta, quando si guarda ai libri di Scarpa non la si trova quasi mai, è un lavoro giovanile, è nascosto, è situato in un luogo di passaggio, è un patio di servizio.

Conoscevi bene il patio di Scarpa anche prima di arrivare alla Biennale?
Non sapevo nulla in realtà di questo patio, ero già stato alla Biennale ma non l’avevo mai notato. E questa volta invece l’ho visto, l’ho studiato, ho iniziato a pensare e ho deciso di trasportarlo all’interno, dentro la stanza e dentro il mondo dell’arte. Il patio di Scarpa è fuori nella realtà, dove il tempo, l’inquinamento, la natura lo consumano e dove è anche in un certo modo dimenticato, non considerato più come un opera d’arte importante. Nel momento in cui lo si porta dentro diventa un “modello”. Nel mio lavoro è evidente l’importanza di mettere in relazione la realtà esterna con un’arte interna.

L’arte dunque è un modo per entrare in connessione con la realtà?
Sì proprio così, ovviamente il patio di Scarpa è esso stesso un’opera d’arte, ma è stata intaccata dalla realtà, ha subito il passare del tempo, non è un dramma è semplicemente vita, vivere significa subire l’impatto della realtà. Possiamo dire che all’esterno abbiamo un ammirevole pezzo di architettura esposto alla realtà, mentre all’interno abbiamo una replica che potrebbe essere il modello platonico di quello esterno.
Ciò che m’interessa maggiormente è dunque il rapporto tra questi due oggetti, lo spazio che li unisce o li divide, a questo allude il titolo Ombra tra cerchi di aria. La mia opera è lo spazio tra due oggetti, non l’oggetto in sé.

mara sartore

le immagini sono lavori della mostra Il quotidiano alterato a cura di Gabriel Orozco

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  • Sono estata una volta curatrice in brasile per la Biennale des Jeunes, Parigi. SOLTANTO UMA VOLTA. Osservo la produzione artistica/visive ed la relazione con il quotidiano/tempo/tempo histórico. Noi artisti siamo i più preparati per essere curatori. Mi sembra chi molti di quelli chi non sono artiste pratici ed diventono "curatori"sono alcune volte senza vero talento, soltanto instrumenti di mercato, politica dominatrice..Curatorium é diventata una profissione per quelli chi hanno um diploma de literatura/historia del arte/ una piccola tesis sopra arte... ed molte volte arrivano direttore dei musei...Noi siamo i produzzenti, siamo poveri, ed tutti galeria, museu, curatori sono diventati in posizione... Nostro lavoro sustenta tutto !! Cordialmente, Evany Fanzeres

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