Non tradisce la sua passione pittorica il cineasta gallese
Peter Greenaway (Newport, 1942; vive ad Amsterdam) che, fin dal principio della carriera, coniuga abilmente arti visive e cinema, per un immaginario visionario e poetico, sovraccarico di simbologie e metafore. E dopo la rivisitazione della
Ronda di notte di
Rembrandt e del
Cenacolo di
Leonardo, è ora la volta delle
Nozze di Cana del
Veronese, all’interno del progetto Change Perfoming Arts, che prevede l’interpretazione di nove dipinti classici.
Eseguito tra il 1562 e il 1563 per il refettorio palladiano del convento di San Giorgio, il capolavoro di Veronese fu trafugato da Napoleone nel 1797 e smembrato per esser ricomposto ed esposto al Louvre, dove si trova tutt’oggi. Infatti, la monumentale opera che ci si trova davanti all’apertura del sontuoso sipario è la copia in scala 1:1 dell’originale. Un collage di 2700 scatti ad altissima definizione su tela di lino, a opera di Adam Lowe, indistinguibile dall’originale.
Un facsimile costato la bellezza di 100mila euro, che ha generato non poche polemiche e ha catalizzato l’attenzione di Greenaway. Il regista che sogna un film a 360 gradi che avvolga lo spettatore, trascendendo i confini dello schermo e alterando il consueto senso narrativo.
Un sistema di luci e suoni elaborati in sofisticatissima tecnologia digitale, coadiuvati da tecniche di animazione in 3d, animano l’opera, dove i personaggi sembrano muoversi e interagire tra loro in maniera piuttosto calzante. Frammentata, sezionata, vista dall’alto e in proiezione ortogonale, la scena è accompagnata da un turbinio di dialoghi che s’infrange tra le pareti del refettorio, dove scorrono i particolari dilatati fino al culmine del primo miracolo di Cristo. Tra scene notturne ove divampano inquietanti incendi e cieli limpidi attraversati da stormi di gabbiani.
Non è un caso che i 126 personaggi, numerati per esser distinti e uniti da fasci di luce nel momento in cui gli viene data voce, dialoghino in dialetto veneziano. Infatti, se il Veronese ha adattato l’opera al gusto della sua epoca, Greenaway adatta i dialoghi alla nostra, alternando il veneziano all’inglese. Stesso ragionamento per la colonna sonora di
Andrea e
Giovanni Gabrieli, tutt’altro che sacra. Così come l’opera. Concepita non solo con personaggi in abiti contemporanei e dagli atteggiamenti disinvolti, ma come una festa aristocratica dal regale convivio, niente di più lontano dal contesto evangelico secondo il quale si tratterebbe di un banchetto di nozze nella Giudea del 31 d.C., dove Cristo trasformò l’acqua in vino.
In questo modo, Peter Greenaway conferisce vita alla materia. Eludendo la rigorosa bidimensionalità , caricando emotivamente e sensorialmente il dipinto, mettendo in luce ulteriori codici celati nell’infinita serie di personaggi e dettagli. Cinquanta minuti di forte coinvolgimento e impatto visivo. Per celebrare superbamente la magnificenza di un’opera immortale.
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Uno dei migliori in biennale, grande Greenaway!