Categorie: Cinema

Il viaggio dell’anti-eroe Checco Zalone: Tolo Tolo e gli expat

di - 3 Gennaio 2020

In un anno imprecisato dell’ennesima Repubblica, il simpatico pugliese impertinente e furbissimo ha un’idea per valorizzare i suoi paesaggi mozzafiato, o per farsene valorizzare, capitalizzando il tempo la natura e il lavoro di chi lo ha preceduto. Dal suo flusso di coscienza iniziale – la prima persona di un uomo senza coscienza è la cifra di Checco Zalone e torna anche in Tolo Tolo – capiamo che è tornato da un altrove imprecisato. Nessun altro ci ha mai pensato prima, forse a ragione ma questo, al furbissimo e intraprendente ultraquarantenne che non vuole smettere di sognare, sfugge. Crede proprio a tutto e a tutti. Spera e ha fiducia nel futuro della sua terra, attrattore globale di capitali e flussi turistici.

Quello che succede dopo è una conseguenza fatta di iperboli, dove tutto non smette di montare in situazioni sempre più tragiche, anche queste completamente fuori dalla portata degli interessi del nostro, sensibile all’immagine, alla performance e al pubblico pagante. Scaramanticamente tutto quello che succede nella finzione, come nei sogni, non succede nella realtà.

L’attesa spiazzante di Tolo Tolo

Grazie a un ossessivo meccanismo pubblicitario, costruito per spiazzare, invitare all’insulto, alla catarsi becera, l’appuntamento di ogni expat di ritorno a casa è con Checco Zalone. Uno si aspetterebbe il via libera, almeno nel buio della sala, alle proprie paure dell’altro, all’insulto cafone, alla finale liberatoria frase: torniamo tutti a casa, noi e voi, si sta meglio. Gli affari andranno bene a chi ritorna, perché tutti hanno un luogo cui tornare.

Invece le attese sono spiazzate. Il film non è buonista, è ultramisericordioso. I torti di Checco Zalone, in Tolo Tolo, superano ogni possibile perdono, sbaglia negli affari, sbaglia in amore, sbaglia negli affetti, sbaglia nelle relazioni con il suo e l’altrui mondo. Sbaglia proprio tutto. Per dirla con Hirschmann, Checco Zalone è l’eroe della cultura del fracasismo. Sbagliare tutto per sbagliare ancora meglio.

Eppure, a questo punto della storia, arriva un eroe positivo, una specie di grillo parlante, studioso di Pasolini, del neorealismo, della letteratura al suo grado più colto e raffinato, che vuole fare il regista ed è il suo esatto opposto. Del posto dove vuole andare a vivere e del suo conosce e capisce tutto. Perfettamente orientato, completamente colto, è un uomo fatto e finito, pur avendo almeno dieci anni in meno dell’eroe del ritorno. Sarà la sua bussola, costantemente fraintesa per tutto l’arco narrativo centrale, quello più complesso, dove accadono tutti i fatti importanti nella trama, fino a quando anche questo eroe positivo fallisce.

Alla salvezza del suo eroe, al suo ritorno, preferisce la propria partenza, riabbandonandolo a un altro aiutante positivo, questa volta positivo sul serio perché è il suo omologo riuscito. Ha successo, è bello, è ricco, riesce a sedurre come l’eroe del ritorno, ormai infangato e privo di tutti i suoi attributi, dal brand al portafogli, non può. Anche questo aiutante si rivela fragilissimo e incosciente, al pari e forse peggio degli altri. Rappresenta, questo giornalista a caccia di foto di perdenti globali, il Potere per il Potere. Rivelando il suo volto.

Al nostro eroe, a questo punto, per tornare, non resta che seguire il viaggio di chi invece vuole veramente partire e lasciare tutto alle sue spalle. Questa inversione è la vera trovata narrativa e spiazzante del film. Un nostos che è ritorno per l’intera umanità, raccontato al suo grado zero.

Una favola senza lieto fine. Ma con un augurio

Infine, questa favola non ha un lieto fine. Deve quindi terminare in un improbabile disneyano cartoon, dove la salvezza è solo propaganda auto-assolutoria. Non c’è tanto da commentare, è un film sentimentale e cattivo contemporaneamente. Spietato e affettivamente corrosivo, non risparmia nulla a nessuno, nemmeno agli amici di sempre.

E per primo reclama tutte le delusioni di più di un decennio, con un Nichi Vendola giardiniere che si perde, con grande auto-ironia e intelligenza, in un indefinito, complicatissimo monologo filosofico a proposito del potere e della politica globale. Che, presi con le bombe, proprio non aiuta. Che sia un augurio, che riusciamo a capire in che direzione orientare il nostro Nostos.

Ha collaborato con Duel, Duellanti, D’Architettura scrivendo di spazio e arte. Collabora con Exibart dopo aver pubblicamente richiesto a Germano Celant di firmare una dichiarazione che ripetesse le sue parole “Ragazzi, l’arte, in fondo, è artigianato”. La richiesta non è stata esaudita. Ha inoltre studiato presso l’Università IUAV di Venezia, dove ha seguito il laboratorio di Joseph Kosuth e ha conseguito un dottorato in Urbanistica nel 2012, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti presso la UMBC di Baltimora e la New School di New York. Svolge attività didattica e di ricerca all’Università IUAV. Fra i suoi testi, Corridoi. La linea in Occidente, Quodlibet, Macerata 2014.

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