Categorie: fiere e mercato

La dittatura del mercato |

di - 19 Giugno 2003

Si è aperta ieri Art | 34 | Basel la più grande fiera d’arte contemporanea del mondo. Se alla Biennale di Venezia si paventava la dittatura dello spettatore, a Basilea si verifica ogni anno quello la “dittatura del consumatore”. In un certo senso l’intenzione del lettore dell’arte si manifesta come la possibilità di avvicinarsi al possesso o allo sfruttamento economico dell’opera d’arte. Nell’approssimarsi ad uno status di comunicazione privata con l’opera e di ingresso pubblico nel collezionismo, lo spettatore si riconosce consumatore. La fiera di Basilea, alla sua trentaquattresima edizione, resta il luogo delle scoperte e delle anticipazioni ancor più della Biennale che è schiava delle grandi gallerie, dell’editoria e, appunto, del pubblico. Questa caratteristica proiettiva fa della kermesse elvetica il luogo della condizione futura dell’arte in un dialogo serrato con il passato.
Dai Picasso presenti in fiera, infatti, si arriva alle mostre personali di giovani artisti nella sezione Art Statements ed alle monumentali installazioni che occupano l’edificio di Art Unlimited.
La Biennale ha aperto i battenti in una condizione di disagio lamentata o quasi ignorata, sicuramente impressa nella memoria dei presenti, Art 34 Basel, invece, inaugura in uno stato di grazia e una fresca e dinamica sfacciataggine della fiera ha saputo distribuire su due continenti il proprio modello aprendo una succursale a Miami sempre attenta a selezionare gallerie ed opere da esporre. Basilea, a differenza della Biennale, vive sulla sincerità della sua istituzione, è un mercato sì, ma è uguale a se stesso non è certo la versione italiana di Documenta (come è invece l’Arsenale) tanto meno la sposa con cui tutti vogliono andare al letto. Basilea è il centro del mercato dell’arte e della cinica determinante politica di raccordo tra continenti diversi, senza patetici cappelli intellettuali pronti a legittimare tesi sulla coscienza (e sull’incoscienza) globale. L’ipocrisia a Art Basel sembra rimanere fuori e le 270 gallerie ammesse dall’art commitee sono pronte a far girare milioni di franchi svizzeri e non a convincerci dell’esistenza di chissà quali Utopie postmoderne.
Entrare ed uscire dagli stands di questa mega fiera fa capire anche il modo in cui un’operazione commerciale può trasformarsi in un dato di fatto culturale, cosa che solitamente vediamo invertita quando leggiamo riviste e giornali d’arte contemporanea. Siamo convinti che dal 1970, data di nascita della fiera, a Basilea si siano visti più grandi artisti che artisti grandi. In sostanza la spettacolarità della rassegna veneziana, la macroscopia e il caos (che Il Sole 24 Ore ha paragonato a quello di un bazar ed Exibart a quello di un centro sociale d’antan) non è ammesso in Svizzera se non nella misura della mostra. I curatori qui ci vengono per fiutare ed assemblare mentalmente le loro mostre, come meccanici che dovendo montare un bolide cercano gli elementi da incastrare più o meno perfettamente per far partire le loro tesi sulla pista del gusto e dell’informazione.
Così la Biennale finisce con l’essere una specie di Festival di Sanremo, che tutti criticano e tutti guardano, mentre Basel è considerata, in un certo senso, una austera e fredda realtà fatta di soldi e trattative, poco importa se queste si facciano o meno intorno a stupende opere d’arte. L’artista indebolito dalla foga ermeneutica e manipolativa del curatore, a Besilea riprende forza con la sua firma si corrobora con la sua quotazione. Abolito l’intermediario, l’opera si ritrova isolata in una equidistanza tra generazione e fruizione per cui, la galleria, non è solo intermediario ma il luogo d’incontro di questi due momenti. Basilea, quindi, tramite la dittatura del mercato ha ridestato la dittatura dell’artista, e l’unico sogno è quello di potersi permettere di comprare, così unico conflitto risulta essere quello con la possibilità economica, ed in questo, è vero, è dittatore lo spettatore.

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marcello carriero

[exibart]

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  • “un’operazione commerciale può trasformarsi in un dato di fatto culturale, cosa che solitamente vediamo invertita quando leggiamo riviste e giornali d’arte contemporanea.”
    Parole sante, come quelle del buon Enrico Baj che a proposito della biennale scorsa ebbe a dire:
    “Ormai di biennali se ne fanno dappertutto, ma quella veneziana fu la prima nel 1895, e rimane il principale punto di riferimento per la sua schifezza. [...] in quell’acqua fetida, in quei canti napoletani di gondolieri per turisti, in quegli alberghi tra i più cari al mondo, in quella Biennale, infine, metafora di ogni pochezza, esteriorità, banalità, spreco e devastazione mentale”
    (pace all’anima sua)

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