Pochi giorni fa, a Cincinnati, in Ohio, si è svolta l’edizione 2019 di Fotofocus Biennial, la più grande biennale d’arte fotografica d’America. Al simposio AutoUpdate: Photography in Electronic Age, si sono riuniti fotografi, artisti e critici per discutere il presente e il futuro della fotografia. Oggetto del dibattito: come le tecnologie digitali impattano sul nostro modo di produrre e di vedere le immagini. E le previsioni per il binomio tecnologia e immagini si rivelano piuttosto cupe.
I nostri tempi sono infatti caratterizzati da un drastico cambio di paradigma. Nel passato, una fotografia necessitava dell’essere umano per esistere e/o avere un significato. Oggi abbiamo raggiunto fase in cui «la maggior parte delle immagini nel mondo sono fatte da macchine per altre macchine», spiega al convegno Trevor Paglen, l’artista che ha lanciato un’opera in orbita.
La tecnologia è diventata protagonista attiva nel mondo delle immagini. Superato l’ambito della mera produzione, oggi le macchine sono capaci di vedere e di interpretare immagini. Ogni giorno a ogni ora occhi meccanici scansionano milioni di profili social, database delle security, visi e movimenti negli aeroporti, nelle banche, nei supermercati, nelle piazze.
Ma non solo vedono e interpretano, le macchine sono anche capaci di giudicare. Paglen ne ha discusso facendo riferimento al suo recente progetto ImageNetRoulette, un’app integrata con AI che rivela alcuni bias interni ai sistemi di riconoscimento d’immagine, ovvero i “pregiudizi” che questi sistemi hanno nel proferire i loro giudizi.
Si tratta di un programma, creato in occasione di Training Humans a Fondazione Prada, in grado di leggere le nostre caratteristiche facciali e di restituirne una categorizzazione generata tramite AI. Per quanto autonoma, questa AI è programmata per emettere molto spesso giudizi negativi, accusatori o offensivi, per dare una simulazione di cosa si possa rischiare nel conferire tali poteri alle macchine, presupposte imparziali.
Insomma, l’onda del progresso tecnologico sta portando la fotografia verso una dimensione sempre più orientata e “interessata”, lontana da quell’oggettività che le si riteneva propria ma che probabilmente non lo è stata mai.
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