Tutto nasce quando quattro artisti finlandesi – Marja Pirilä, Harri Pälviranta, Maija Annikki Savolainen, MaijaTammi – si trovano a discutere sul concetto di unicità dell’opera. Fotografi, pittori, scultori, poeti, oggi sono abituati a ragionare per cicli e serialità. È possibile, nella Weltanschauung del flusso visivo continuo, soffermarsi ancora sulla singola immagine? Sotto la spinta dei quattro fotografi, nel 2019, il Finnish Museum of Photography di Helsinki, in Finlandia, ha promosso una prima mostra-esperimento, grazie a Frame Contemporary Art Finland, che supporta gli artisti finlandesi all’estero, e Matèria. “One Picture Manifesto” è stata progettata come mostra itinerante: portata a Roma, all’ISFCI all’Istituto Superiore di Fotografia, nell’ottobre del 2022 approderà alla galleria Kana Kawanishi di Tokyo.
Una particolarità del progetto è che, a ogni nuova tappa, un artista locale è invitato a arricchire il manifesto con una sua fotografia. Il primo artista “straniero” coinvolto è il fotografo e curatore Alessandro Dandini de Sylva. «Il rischio – ha commentato de Sylva – è che se con questo progetto si compone una collezione di immagini singole, si viene a creare comunque un dialogo tra di loro e si perde l’idea dell’unicità dell’opera».
Il fascino dell’esperimento tuttavia è troppo invitante. Intanto si tratta di un viaggio di cui non si conosce il prossimo artista. E in più ogni location coinvolge un pubblico diverso, perché la mostra viene portata in luoghi espositivi di diversa natura. Il primo era una sede istituzionale: il Museo di fotografia di Helsinki, il secondo, una scuola di fotografia di Roma. A Tokyo sarà in una galleria di arte contemporanea che si occupa principalmente di fotografia.
Ciò che si cela dietro al concetto dell’unicità dello scatto, contrario al nostro Zeitgeist, è l’idea dell’icona sacra, che basta a sé stessa ed è insostituibile. E non solo: “One picture Manifesto” richiede al pubblico uno sforzo. Fare tanta strada per misurarsi con meno di dieci foto. È un pellegrinaggio. Chi vuol vedere quella precisa immagine deve intraprendere un percorso che è un viaggio, entrare in un tempio. La gualcita aura dell’opera torna in auge.
Ciascuna fotografia presuppone un lavoro molto diverso dagli altri. C’è chi lavora sull’idea del disgusto visivo. Chi sulla violenza politica e sociale e sulle stratificazioni. Chi sulla poesia di gesti incompresi. Una donna si mette in bocca frantumi di specchio (Maija Annikki Savolainen). Per alcuni la vera musa è la camera oscura e i suoi giochi di riflessione e rifrazione.
Alessandro Dandini, crea una connessione tra il bidimensionale e il tridimensionale. Il focus è su una forma scura che crea nel fruitore un dubbio brioso, nello spirito dell’immagine aperta. «La mia foto mi piace perché è sbagliata, imperfetta, disordinata e piccola. Anche le dimensioni contenute dell’opera concorrono all’idea di icona: l’importante per me è suscitare interrogativi. Che cos’è questo oggetto tondo nero che sembra quasi disegnato sopra la fotografia? È nero però produce luci colorate», ha spiegato il fotografo romano.
Filippo Nostri è colui che ha disegnato il poster della rassegna. Il cui allestimento nella città eterna sembra rifarsi alle stazioni lignee della via crucis. Ma di volta in volta l’allestimento è pensato in base allo spazio. Non ci sono didascalie. L’obiettivo resta quello di invitare lo spettatore a fermarsi e guardare ciascuna foto per un po’ di tempo. Nella violenta raffica iconografica del nostro tempo, “One picture Manifesto”, è la rassegna diffidente che propone al pubblico una tregua visiva. Regalando alla singolarità della fotografia il tempo che merita.
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