L'attesa, 2023, tecnica digitale
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Lucia Bottegoni.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Credo che possa definirsi arte tutto ciò che deriva da una pulsione emotiva che ci porta a concretizzare un’idea, un’intuizione, un’immagine che si forma nella mente. La rappresentazione è legata al proprio essere e qualche volta alla necessità di introspezione. Personalmente creo per il mio divertimento. Il momento della realizzazione coincide per me con una profonda attenzione al momento presente che mi procura pace e connessione con me stessa».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Non mi sento di avere un’identità ben definita. Credo molto nell’evoluzione e nel cambiamento, quindi preferisco pensarmi più in termini di movimento. Più che sentirmi fissata in una particolare identità, mi vedo in cammino alla ricerca di nuovi stimoli e idee, ma anche desiderosa di consolidare e migliorare ciò che ho acquisito finora.
Ho comunque delle mie preferenze e amo moltissimo tutto ciò che richiama l’onirico e il surreale che cerco, in linea di massima, di ricreare vagamente nei miei scatti, spesso accostando elementi tra di loro incongruenti».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Sono una persona schiva e timida. Amo e coltivo molto la solitudine e il contatto con la natura. Non mi sento a mio agio nell’espormi e cerco di rimanere fedele a me stessa, anche se percepisco di essere influenzata dalla paura di come potrei apparire agli occhi degli altri. In parte lo trovo inevitabile, considerando che viviamo in un mondo dove l’apparenza conta tanto e dove siamo vittime del giudizio altrui e carnefici a nostra volta, ma questo mio timore si traduce poi per me in un grande limite perché spesso mi infastidisce e mi rende rigida».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Il rimanere connessa con me stessa, cercare di rappresentare ciò che veramente sento mio. Ispirarsi a qualcosa di già visto fa parte della modalità di creazione e di rappresentazione ma preferisco farlo in una maniera che sento vicina al mio pensiero e al mio sentire. A volte riesce, a volte un po’ meno ed è naturale che sia così. Nel procedere per tentativi, il fallimento risulta una parte imprescindibile del processo di creazione ma serve per orientarsi meglio e per crescere».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Assolutamente no. Creo per il mio divertimento personale e sono grata nel momento in cui questo procura una forma di piacere anche agli altri».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Considerando che ho sempre avuto un amore per tutto ciò che mi permette di esprimermi a livello creativo, credo che sarei rimasta nel mondo dell’arte. Mi affascina moltissimo il teatro…magari avrei provato con quello».
Lucia Bottegoni nasce a Treia, nelle Marche, nel 1975. Fin da bambina dimostra una forte attrazione per il mistero e l’avventura e un amore per tutto ciò che le permette di esprimersi a livello creativo.
Si avvicina alla fotografia da autodidatta, durante la pandemia, memore degli scatti che in passato faceva utilizzando la Yashica a pellicola del padre. Inizia con un vecchio cellulare, giusto per riempire quegli spazi di tempo che in quel periodo di chiusure e restrizioni avevano una dimensione dilatata. Questa nuova situazione le permette però gradualmente, di guardare il mondo da una prospettiva più intima, di accorgersi della bellezza che ha attorno, di apprezzare maggiormente la solitudine e di scoprire ritmi differenti.
Col tempo, passa alla macchina fotografica digitale, dopo aver scoperto l’urbex, che le consente di unire il mistero, l’avventura e la creatività. In un secondo momento include in questi luoghi delle figure femminili per creare situazioni vagamente oniriche e surreali, in cui regna un contrasto di elementi.
Sempre curiosa e alla ricerca di nuovi stimoli, prova poi il ritratto, ambientato sia in natura che nella magia dei suoi luoghi abbandonati cercando, anche qui, di ricreare atmosfere sognanti e fiabesche.
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