Sarah Grounds, Cages, 2024, B&W photo of an installation and performance in my own home
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Sarah Grounds.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«La tua prima domanda va dritta al nocciolo della mia pratica e della mia ricerca più recente. Per me l’arte significa tradurre un’emozione da me stessa a un altro. Ma come artista è davvero possibile? Rappresentarsi veramente? Non appena si cerca di tradurre la propria emozione attraverso una performance, una fotografia, un dipinto, diventa uno spettacolo. Non sono più io, sto presentando quella che penso sia una rappresentazione di me. La mia pratica quindi sembra essere diventata una ricerca disperata del mio vero sé, realizzando però, mentre cerco, che la ricerca è inutile».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Il genere è una cosa a cui penso molto nel mio lavoro. In quanto donna, il mio lavoro viene spesso interpretato da questa prospettiva, anche se personalmente non prendo in considerazione il genere quando creo un lavoro su me stessa o sugli altri. Gli argomenti che esploro riguardano tutti i generi, il corpo come carne, il corpo come neutrale. Ma come artista performativa che ovviamente ha un corpo femminile, il mio lavoro viene tradotto da altri in tutto ciò che significa essere una donna occidentale e di sinistra, nella nostra società contemporanea. Nel mio lavoro, però, cerco di spogliarmi di queste identità di genere spogliandomi fisicamente, mi raschio anche i capelli indietro e non mi trucco, cercando di trovare una forma di neutralità di genere. Amo essere una donna, ma il mio lavoro non riguarda questo».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Il modo in cui si appare agli altri è molto importante, poiché influisce sulla relazione che si ha con gli altri. Ho convinzioni politiche molto forti sull’uguaglianza, quindi quando incontro le persone sono molto consapevole di cercare di non intimidire o dominare le persone.
Quando ero bambina mia madre, che era una ballerina, mi ha insegnato a trattenermi, camminare ecc. come una ballerina, anche se non avevo alcun interesse a diventare una ballerina. Pensava che così facendo sarei stata percepita come elegante e sicura di sé e questo mi avrebbe aiutato, come donna della classe operaia, come aveva aiutato lei. Ma intorno ai quindici anni, mi sono resa conto che il modo in cui camminavo e mi comportavo mi distingueva dagli altri, mi rendeva diversa e intimidiva le persone. Quindi mi sono consapevolmente allenato e ho assunto una personalità più rilassata e amichevole nel linguaggio del corpo, nella mia vita di tutti i giorni.
A volte gioco adesso, saltando tra i diversi linguaggi del corpo e i diversi effetti che ha sulle persone. Se mi sento nervosa o intimidita divento il pavone che mia madre mi ha insegnato ad essere. In realtà, la personalità pubblica dipende dal potere e da come puoi o vuoi esercitarlo».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«Non mi piacciono le etichette, ci limitano e ci controllano. La nostra società sembra etichettare le persone in modo sempre più minuzioso. Posso capire come questo possa essere rassicurante, nella società isolante in cui viviamo adesso. Ma credo che il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di non avere etichette. Quindi non mi piace etichettarmi come qualcosa».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sì, ora mi rendo conto che tutto di me è un artista. Vivo e respiro il mio lavoro, ecco perché creo così tanto lavoro dentro e intorno a casa mia. Non c’è divisione tra il mio sé artista e tutti gli altri sé che sono. Madre, compagna, ambientalista, artista, sono tutti una cosa sola. La mia arte non sarebbe la mia arte se così non fosse».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Spesso mi chiedo come sarebbe essere un uomo. Non voglio essere un uomo, ma spesso mi chiedo come ci si sente. Camminare per una strada da uomo, commentare le cose, la politica, la filosofia, da uomo. E quanto diversamente verrebbe percepito ciò che dico e faccio, se fossi un uomo».
Sono un artista multimediale che lavora con fotografia, performance, scultura, installazione e immagine in movimento. Estraggo l’immagine fotografica dalla sua cornice convenzionale. Riempio interi spazi con un’unica immagine, rimuovendo completamente l’immagine 2D dal muro per farla diventare scultura 3D; trasformo l’immagine fissa in immagine in movimento, attraverso lo stop motion per poi rimettere il tutto a parete.
Ho appena terminato una laurea in fotografia documentaria e attivismo visivo e ora sto studiando un master in dialoghi contemporanei, entrambi allo Swansea College of Art, UWTSD. Ho anche un anno di residenza presso l’UWTSD, che ho vinto grazie al Sybil Crouch Award. Ho vinto anche l’Alan Whatley Award ed entrambi culminano in mostre alla fine del 2024. Ho vinto il BBA One Shot Award nel 2023.
Ho partecipato a 32 mostre collettive tra cui la Copeland Gallery, Londra e la Glynn Vivian, Swansea. Ora sto lavorando alla mia prima mostra personale che sarà esposta nel 2025.
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