The Awakening 2024, Digital photography, C-type print
Tratta dall’omonima rassegna ideata dall’artista e curatore indipendente Francesco Arena, la rubrica OTHER IDENTITY – Altre forme di identità culturali e pubbliche vuole essere una cartina al tornasole capace di misurare lo stato di una nuova e più attuale grammatica visiva, presentando il lavoro di autori e artisti che operano con i linguaggi della fotografia, del video e della performance, per indagare i temi dell’identità e dell’autorappresentazione. Questa settimana intervistiamo Iness Rychlik.
Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire. Qual è la tua rappresentazione di arte?
«Per me, ciò che rappresenta il dono più grande dell’arte è la sua possibilità di narrare che ti connette con gli altri. Nel corso degli anni, sono diventata quasi immune alle immagini puramente e visivamente sorprendenti, prive di sostanza o mistero che potessero mantenere il mio interesse per più di un momento. Il modo in cui pratico la mia arte, usando il mio corpo come una tela, disegnando e imprimendo motivi sulla mia pelle, è un modo per riconnettermi con il mio corpo dopo anni di dissociazione legata al trauma. Nell’era dei generatori sintetici di suggerimenti per l’immagine di AI, con l’output eccessivamente saturo sia nello stile che nella quantità, sono ancora più spinta a perseguire una fotografia concettuale che descriva esperienze profondamente umane».
Creiamo delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce. Qual è la tua “identità” nell’arte contemporanea?
«Essere impenitentemente vulnerabile nella mia arte è una base fondamentale della mia identità. Per dirla in parole povere, percepire questa caratteristica come una debolezza è un triste fallimento di livello monumentale. Ci vuole forza per mettere a nudo i tuoi pensieri o le tue esperienze intime, così come sopportare il tuo corpo, che nel 2024 è ancora accolto con vergogna (come riflesso anche nelle ingiuste politiche di censura di Meta, soprattutto nei confronti delle donne e dei creatori LGBTQ+)».
Quanto conta per te l’importanza dell’apparenza sociale e pubblica?
«Penso che chiunque affermi che questi fattori non li preoccupano sia falso o delirante. Mi sono laureata alcuni anni fa, ma un corso di antropologia mi è rimasto impresso nella memoria; gli esseri umani sono una specie sociale che dipende dagli altri per la sopravvivenza, programmati per sperimentare il rifiuto sociale quasi come una sensazione di dolore fisico. È difficile sfidare le aspettative, come una donna che cresce in una società patriarcale, o come un’artista che entra in spazi dominati dagli uomini/orientati al business. Sono orgogliosa di aver fatto molti sforzi per rivendicare la mia autostima, per trovare la mia voce chiara come artista e costruire una “tribù” di supporto nella mia vita reale e online, che coinvolge una meravigliosa comunità».
Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione. Qual è il tuo valore di rappresentazione oggi?
«La mia arte rappresenta il mio viaggio alla scoperta di me stessa e alla guarigione. Attraverso la fotografia, spesso esprimo i sentimenti o i ricordi di cui discuto con il mio terapeuta in modo metaforico e aperto, consentendo al mio pubblico di vedere se stesso attraverso il mio obiettivo. Anche se stilizzo meticolosamente il mio lavoro, mi sforzo di mantenere ovunque un senso di cruda emozione».
ll nostro “agire” pubblico, anche con un’opera d’arte, travolge il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Tu ti definisci un’artista agli occhi del mondo?
«Sì, mi definisco sia un artista-creatore che un artista-consumatore. Ho una travolgente spinta interiore a circondarmi di arte straordinaria e a coltivare una cerchia di artisti intorno a me, che nutre il mio spirito creativo. Sono naturalmente percettiva e annoto anche i piccoli dettagli che attirano la mia attenzione, come una “trama” interessante su un muro. Tuttavia, il mio processo artistico è molto introspettivo e richiede che io sia in contatto con il mio paesaggio interiore, il che consente una produzione emotiva».
Quale “identità culturale e pubblica” avresti voluto essere oltre a quella che ti appartiene?
«Nessuno; Sono dove devo essere».
Iness Rychlik è un’artista di origine polacca, residente nel Regno Unito. Nonostante la sua grave miopia, Iness si è dedicata alla narrazione visiva fin dalla prima adolescenza.
Iness Rychlik è nota per i suoi autoritratti cupi e surreali, esplorare i temi del dolore, della solitudine e della vulnerabilità. Poiché soffre di una malattia cronica della pelle, Iness usa il proprio corpo come tela per l’espressione artistica. Attinge alle sue esperienze profondamente personali, riflettendo spesso sulla crescita in una società conservatrice e patriarcale. La sottile eleganza delle composizioni di Rychlik contrasta con un’aura di brutalità sottostante. Le sue fotografie concettuali provocano l’immaginazione dello spettatore, piuttosto che soddisfarla.
I suoi lavori sono presentati da The British Journal of Photography, Cultura Inquieta, Beautiful Bizarre Magazine, Hi-Fructose Magazine, L’Officiel Italia, BBC Scotland.
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Non seguo nessun metodo apparente ma cerco sempre di seguire l'istinto e di prestare ascolto alla voce interiore