Categorie: Giro del mondo

Mirò in America Latina

di - 10 Novembre 2017
Era il 1956, quando Juan Miró si trasferì nelle vicinanze di Palma (Maiorca) nel suo studio-casa progettato dall’architetto Josep Lluís Sert. Portò con se l’esperienza della gioventù parigina, la maturità artistica e le sue opere, che lo accompagnarono sull’isola-rifugio che scelse per l’ultima parte della sua carriera.
«È il più surrealista di tutti noi» affermò Breton quando vide le sue opere esposte accanto a quelle di Picasso alla Galerie Pierre di Parigi nel 1925. Già nel 1923 era un membro affermato dell’avanguardia francese e a Parigi lo fu soprattutto per il quadro Carnevale di Arlecchino (1924-1925). Ripassare quest’opera aiuta a comprendere al meglio la mostra “Miró: l’esperienza di osservare” esposta nell’Accademia delle Belle Arti di Buenos Aires e aperta fino a febbraio 2018. Osservando il Carnevale di Arlecchino si notano le forme biomorfiche, le linee a svolazzi, il nero, rosso, verde e blu amalgamati in una composizione apparentemente ingenua; alcuni critici la ritengono infantile. Vi sono insetti, note musicali, pesci e animali, oltre a un occhio spalancato. Un palloncino baffuto diviso in due metà uguali, una dipinta di rosso e l’altra di blu, rappresenta l’Arlecchino. Il dipinto raffigura il Martedì Grasso (Mardi Gras) e rappresenta l’anima del Surrealismo, cioè “un automatismo psichico allo stato puro” come lo definì Breton, che caratterizzò gran parte dell’opera di Miró. Lui stesso lavorò negli ultimi due decenni di vita (1960-1983) a una rivisitazione del proprio passato artistico, dando nuova luce a concetti ed espressioni che lo caratterizzarono per tutta la prima parte del ‘900. Nato a Barcellona nel 1983, Mirò fino a diciannove anni non si dedicò completamente all’arte, se non come alternativa all’indirizzo economico che il padre gli impose.
L’ultimo periodo di produzione dell’anziano artista (muore a novanta anni) è ugualmente impressionante e intenso, costellato da linee grosse e nere, dall’uso di colori energici e accesi per i quali era conosciutissimo dal pubblico, gocce di colore qua e là e una forte carica simbolica. L’introspezione dell’autore dal 1960 in poi, periodo rappresentato dalla mostra,  si nota nelle cinquanta opere di pittura e scultura esposte alle Belle Arti di Buenos Aires, in un’unica grande sala che trova posto al primo piano dell’edificio, dove non è facile districarsi sia per il poco spazio fra opere e pubblico. La curatrice della mostra, Carmen Fernández Aparicio, con la direzione di Rosario Peirò (Museo Reina Sofia di Madrid) hanno concepito un percorso che esplora la ricerca artistica dell’autore nella rappresentazione della natura e della figura umana. L’esplorazione si apre con il quadro Donna, uccello, stella (1966-1973) dipinto da Mirò per rendere omaggio a Picasso. L’opera presenta elementi caratteristici che si ripetono in molti pezzi qui esposti, in particolare la composizione di cerchi e figure geometriche colorate combina tre elementi che Miró propone in questa sua ultima tappa artistica. La donna come unione con la terra, l’uccello come simbolo della poetica e la stella che si riferisce alla spiritualità. In questo Mirò tardo si ritrovano tutte le esperienze dell’avanguardia post guerra, la semplicità dei materiali usati per le sculture profondamente simboliche (latta, oggetti d’uso quotidiano, ruote) e anche una certa “stanchezza” riscontrabile nei tratti stilizzati e nei colori spenti – quasi timidi – osservabili in uno degli ultimi quadri che dipinse come Donna, uccello (1978) se si comparano con opere di quasi vent’anni prima. L’altra faccia di Miró è mostrata dai due documentari in bianco e nero proiettati in una sala attigua al grande salone, dove si scopre l’artista catalano verso gli anni ’70 intento a “imbrattare” le vetrate del famoso edificio del Collegio degli Architetti di Barcellona, proprio sotto l’opera Fregio dei Giganti di Picasso. Un Miró che si dedicava alla performance artistica, un’artista che non si fermò mai, nemmeno potendo.  (Andrea Alamanni)

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