Categorie: lavagna

INDEPENDENTS

di - 28 Novembre 2017
Gagliano del Capo, meraviglioso paese sorto su un costone di calcare proteso verso il mare pugliese, a 60 chilometri da Lecce. Qui nel 2011 nasce Ramdom: un’associazione di progettazione e produzione culturale e artistica. Tanti i progetti realizzati da allora: mostre, workshop, residenze ed una Masterclass.
Incontriamo in una grigia e ventosa giornata di novembre, nel centro del paese, Paolo Mele, Dottore di Ricerca in Comunicazione & Nuove Tecnologie presso l’Università IULM di Milano e visiting researcher al The New School di New York (USA), cofondatore con l’artista Luca Coclite di Ramdom.
Quale è la filosofia che sottende il vostro progetto?
«Siamo partiti dall’idea di voler provare ad indagare con i linguaggi dell’arte contemporanea un territorio, i suoi paesaggi, la sua comunità, le sue zone di equilibrio e quelle di conflitto. Non si tratta di un posto come altri, non solo perché qui io e Luca siamo nati e cresciuti, ma anche e soprattutto perché riteniamo che questo Capo sia una terra estrema: da un punto di vista geografico, evidentemente, ma anche da quello culturale, sociale, antropologico. Per condurre questa indagine abbiamo cominciato a chiamare dei ricercatori che spesso non vengono considerati tali, ovvero gli artisti. Li abbiamo invitati in residenza e abbiamo chiesto loro di affilare gli strumenti mediali e di andare in giro a sondare le parti più visibili e quelle più nascoste di questa terra».
Perché, e che cosa significa, agire nel tacco più estremo d’Italia?
«Nelle giornate più nitide, dal nostro paesino vediamo chiaramente le montagne dell’Albania e le prime isole della Grecia: siamo quasi più vicini all’altra sponda dell’Adriatico che al nostro capoluogo di provincia. Siamo cresciuti pensando di essere alla fine del mondo, poi siamo ritornati, anche grazie a delle politiche culturali che hanno creato un terreno fertile per il nostro rientro, e abbiamo deciso di ribaltare il punto di vista. Non più la fine, ma l’inizio; non ai confini d’Europa, ma nel centro del Mediterraneo: è questa la nuova prospettiva dalla quale abbiamo deciso di guardare questa terra. Per il resto, si tratta di un lavoro site specific e dunque richiede un lavoro ponderato rispetto al contesto socio-culturale di riferimento. Il fatto di essere nella nostra terra d’origine è sicuramente d’aiuto per il reperimento di aiuto e risorse inkind, ma talvolta è anche un’arma a doppio taglio».
Jacopo Rinaldi, 16fps

In un Paese culturalmente alla deriva, dove l’arte contemporanea fatica a riconquistare il podio e rimane tutt’oggi chiusa nella chiocciola del sistema, che importanza hanno le periferie del presente? Così mi piace definire piattaforme di ricerca come la vostra…
«Vitale, credo. Sono il terreno della sperimentazione, della riflessione e del principio dell’azione. Se da una parte è vero che l’offerta culturale, nelle periferie, è spesso ridotta nel tempo e nella quantità, è vero anche che proprio da quelle che tu definisci periferie del presente sono nate e nascono le realtà più interessanti. Questo perché la periferia offre possibilità che la città sottrae: nonostante la nuova tendenza dei boschi verticali e degli urban garden, i terreni più fertili ed incontaminati non si trovano nel centro cittadino. Vale per il cibo, ma infondo ritengo sia lo stesso anche per la produzione artistica e culturale».
La Station
Vi attende un dicembre di fuoco, con due inaugurazioni alle porte: Hall, un’opera di Luca Coclite, nata in collaborazione con il regista Mattia Epifani e “Sino alla fine del mare”, la mostra di fine residenza di Simona Di Meo, Roberto Memoli, Nuvola Ravera, Jacopo Rinaldi. Ce li racconti?
«Si tratta di due progetti che nascono grazie al sostegno del bando “S’illumina”, promosso da Siae e Mibact. Il lavoro di Luca si innesta all’interno di una riflessione già avviata dal mio socio all’inizio dell’Indagine sulle Terre Estreme. Come nel 2014, ha deciso di puntare la sua attenzione su un edificio, anche qui un’ex colonia. Ma se nel caso di Imaginary Holiday, nel 2014, era la posizione di questo edificio in abbandono da tempo immemore, proprio sull’estrema punta d’Italia, adesso la situazione si fa più politica direi. Hall è un lavoro sul Regina Pacis: l’edificio, nato come colonia, poi destinata a centro di permanenza, reso celebre a causa dei maltrattamenti subiti dai migranti ad opera dei gestori, oggi vorrebbe diventare un hotel a 5 stelle. La riflessione di Coclite, verte sul tema della accoglienza declinata secondo i suoi diversi significati: accoglienza turistica come risultato delle relazioni (il più delle volte fittizie) che il turista ha con l’intero sistema locale, del sistema d’accoglienza sul territorio destinati ai richiedenti asilo, rifugiati e destinatari di protezione sussidiaria. Il risultato è un progetto video che prende le forme di una videoinstallazione multimediale. “Sino alla fine del mare”, invece, è il nostro progetto di residenza più intenso, sin qui avviato. Abbiamo ospitato quattro under 35 per sette mesi, da giugno a dicembre, e con loro, ma anche grazie al contributo di diversi ospiti come Claudio Zecchi, Elena Mazzi, Francesca Girelli, Heba Amin e tanti altri abbiamo continuato l’indagine sul territorio. Il 21 dicembre questo lavoro di ricerca si paleserà nella forma della mostra, o preferirei dire, restituzione al pubblico. Simona Di Meo suggestionata dal segnale radiofonico che in alcuni punti di Gagliano del Capo si sovrappone a quello degli stati limitrofi, esplora il concetto di frontiera, mettendo in relazione le comunità che risiedono sul confine italiano, greco e albanese. Con l’installazione su una delle automotrici leggere che si fermano a Gagliano-Leuca, ultima stazione nel sud-est d’Italia, Jacopo Rinaldi si concentra sul paesaggio in movimento attraverso immagini tratte da una pellicola di un cinegiornale datato 1935. Roberto Memoli realizza un’installazione sonora, che richiama alla memoria l’usanza del fuoco acceso nella piazza centrale di Gagliano del Capo il giorno del solstizio d’inverno. Mentre il rito di buon auspicio è stato interrotto dagli anni Novanta, gli ulivi pugliesi sono colpiti da una malattia che provoca il loro rapido disseccamento. Infine, Nuvola Ravera fa emergere le parti sotterranee d’inconscio del luogo attraverso uno sguardo che prende in prestito gli strumenti propri della psicanalisi in una narrazione non lineare. Insomma, chiudiamo in bellezza un anno straordinario e apriamo il 2018 con il botto».
Jack Fischer

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