Edito da Castelvecchi nella collana “Fuoriuscita” diretta da Christian Caliandro, il libro di Saverio Verini sulla “stagione fatata”, cioè l’infanzia (nell’arte contemporanea), implica molti interrogativi e alcune risposte. Certamente sappiamo che le fate si dividono in buone e cattive, dunque se la stagione dell’infanzia è fatata, le une innocenti le altre oscure già danzano attorno alle culle per spartirsi creature novelle.
Come al solito lo sanno bene gli artisti, questi grilli parlanti che se ne infischiano delle teorie e già ben prima di Pedagogia, Psicoanalisi, Psicologia, tirano fuori dal buio sacco dell’indicibile e dell’inconoscibile rappresentazioni memorabili attorno all’infanzia. Per dire, tra 1515 e 1520, il ragazzo sfacciato che rivela un mondo mentre ride e mostra il suo disegno di un bambino, nel dipinto di Giovan Francesco Caroto, oppure, 1635, il Gesù di Guido Cagnacci (Collegiata di Santarcangelo di Romagna), con in mano un martello, che sulla veste rossa proietta un’ombra nera, piccola, abissale precognizione di morte.
Ma, in definitiva, che affrontare i perché e i come dell’infanzia sia davvero come entrare nel bosco oscuro dei Grimm o di un Perrault o di un Collodi, lo hanno stabilito alcuni capolavori del ‘900 con sublime trasversalità linguistica, penso a Le petit Prince del 1943, o al Pinocchio di Carmelo Bene andato in scena per la prima volta nel 1961, o all’androide fanciullo, all’estenuante commovente ricerca della Fata dai capelli turchini, nel film di Steven Spielberg, Intelligenza artificiale del 2001, su progetto di Stanley Kubrick.
Detto questo, è chiaro come Verini abbia preso in mano una bella gatta da pelare, con coraggio partendo da un “Tentativo di definizione”, e terminando, assai giustamente, con “La parola ai bambini” incardinata nei lavori di Alessandro Cicoria e di Francesca Grilli, entrambi svolti col fermo intendimento di levarsi di torno finalmente gli adulti e rendere i bambini protagonisti assoluti dell’opera. Nel mezzo (del libro) “L’infanzia alla prova dell’arte”, opere e artisti, viventi e non, che l’autore ha individuato lasciandosi orientare «Dalla conoscenza diretta, dal rapporto umano e dalla stima artistica che nutro nei loro confronti, dalla condivisione di idee e progetti che nel corso degli anni mi hanno legati ad essi».
Così, in un parterre variegato dai molteplici linguaggi del contemporaneo, da Diego Marcon a Thomas Braida, da Luca Bertolo a Valerio Nicolai (ed è davvero curioso che in un libro sull’arte le opere d’arte siano riprodotte senza alcun rispetto per gli originali), approdano su queste pagine con mirabolanti zattere poetiche artisti che hanno fatto la storia di questo straniante rapporto tra arte e infanzia: perché “l’Infanzia” si annida a volte solo nell’opera, a volte nell’opera e nel suo autore, a volte solo nel suo autore…Pino Pascali, ad esempio, il bambino che trasformava in semplicità l’essenza del mare, della terra e della propria infanzia. E ha ragione Verini quando scrive di quanto siano significativi del suo essere “bambino”, i disegni che questo artista eseguiva su committenza per la pubblicità (disegni sempre curiosamente trascurati, aggiungo, dalla critica, che dovrebbe maggiormente occuparsene; ma si sa, il disegno è ancora la Cenerentola dell’arte).
O Maurizio Cattelan, “superbambino” non tanto, secondo Verini, per la formalizzazione del lavoro, quanto per il camaleontismo della sua opera e, con essa, «Probabilmente, della propria personalità», che esprime «Un’indole pienamente infantile, in cui coesistono disubbidienza e fragilità, burla e trauma, esibizionismo e desiderio di ritrarsi, menzogna e letteralità, terrore e stupore». Dicotomie, mi pare, che emergono persino nelle interviste, tipo quella rilasciata da Cattelan a Vincenzo Trione su “La lettura” del 30 aprile, in vista di “Reaching for the Stars. Da Maurizio Cattelan a Lynette Yladom-Boakye”, visitabile a Palazzo Strozzi di Firenze fino a 18 giugno 2023.
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