Visione romana nasce come un viaggio nell’arte a Roma nel Novecento, un percorso diviso in cinque capitoli che non pretende di ripercorrere in modo definitivo e completo tutte le intricate vicende dell’arte nella Capitale nel secolo scorso, ma di tracciare solo alcuni possibili itinerari in cui la città rappresenta la scena e il fulcro di sviluppi fondamentali per la storia dell’arte italiana e internazionale.
Il titolo
Visione romana, citazione di un verso di
Ebdòmero di
Giorgio de Chirico, è legato a un possibile sguardo che appartiene alle arti visive di Roma, a una loro ipotetica concezione del fare artistico, ma anche a un occhio capace di andare oltre le apparenze, a una “visionarietà” che in modi diversi passa dal Futurismo alla Scuola Romana, da de Chirico agli anni ‘60 fino agli artisti delle ultime generazioni.
Come ha scritto Maurizio Calvesi nella prefazione al volume: “
La pinacoteca del XX secolo e dell’oggi non è che lo strato emergente di una immensa, tentacolare accumulazione di civiltà”. “Visione romana”, continua Calvesi, “
occupandosi di questo strato più affiorante, ne fa tuttavia avvertire originarie radici di carne e sangue, e la comunicazione osmotica da strato a strato. Tenuto bene in vista è il testimone del passaggio dal passato al futuro, ma soprattutto il libro riesce anche a far sentire la vastità dell’attuale piattaforma, commisurabile alla profondità del carotaggio, la sua complessità nell’intreccio dei percorsi, vari ma solidali in molti snodi”.
Quasi simbolicamente, i percorsi del libro partono dal racconto di luoghi di confine di una Roma meno consueta e ufficiale, territori visti come innesti per le storie che si sviluppano nei diversi capitoli. Il quartiere di Centocelle e il Prato della Borgata Gordiani dov’è stato girato
Accattone sono quindi lo scenario iniziale per affrontare il rapporto di
Pier Paolo Pasolini con le arti visive, il suo approdo a un cinema che parla di una Roma estrema e sottoproletaria attraverso un sistema di riferimenti fondato sulla sua profonda cultura storico-artistica e legato al suo amore per l’arte italiana dal Trecento, al Quattrocento fino a
Caravaggio.
Viene analizzata poi la militanza di Pasolini nel dibattito sulle arti della sua epoca, il suo rapporto con il suo amico
Fabio Mauri e con gli artisti indirizzati a una visione figurativa (da lui prediletta) della Roma contemporanea come
Renzo Vespignani o
Bruno Canova.
Il Mattatoio di piazzale
Pino Pascali, che confina con viale
Franco Angeli a Tor Sapienza (in una zona dove le vie hanno i nomi dei grandi maestri dell’arte italiana del Novecento) dà il via invece a
La carne di Roma, dove l’immagine della carne macellata degli animali, del corpo della città sventrato o del corpo umano martoriato diviene un vero e proprio filo rosso tra iconicità, astrazione e arte ambientale che lega emblematicamente una linea che va da artisti della Scuola Romana come
Scipione e
Mafai fino a
Leoncillo, al magistero centrale di
Burri, a
Toti Scialoja e allo stesso Angeli.
Questo itinerario è concluso da
Jannis Kounellis, allievo di Scialoja all’Accademia di Belle Arti di Roma e autore di installazioni dove la carne dei quarti di bue viene esibita nella sua aspra presenza fisica, come per serrare un cerchio che evoca anche immagini del cinema di
Fellini.
La visione del quartiere di Cinecittà dall’alto innesca poi l’analisi del rapporto tra mass media e arti visive dal Futurismo agli anni ‘60 con le tendenze analitiche e la Scuola di Piazza del Popolo in una Roma capitale dei mezzi di comunicazione di massa: del cinema prima, della radio e della televisione poi.
Il capitolo successivo parte ancora da suggestioni felliniane, con la celebre scena dell’antica casa romana rivelata degli scavi del metrò in
Roma per parlare di una capitale sotterranea attraversata dalla metropolitana in costruzione che si trasforma nella Roma ctonia del
Sonno romano e delle opere di suggestione egizia dipinte da
Fabrizio Clerici, amico e sodale di Fellini in occasione di film come
La dolce vita o il Toby Dammit di
Tre passi nel delirio, e pittore capace d’influenzare con la sua opera immagini di importanti film di fantascienza.
Il libro si conclude con le arcate degli antichi acquedotti della città e della campagna romana, ispiratrici dei porticati delle piazze di Giorgio de Chirico per ripercorrere il rapporto del padre della Metafisica con la città eterna e il recupero del suo lavoro operato dagli artisti Pop, da
Schifano a Festa fino a
Andy Warhol, dalle correnti che hanno segnato un certo versante iconico del ritorno alla pittura negli anni ‘80 fino alle suggestioni dei suoi quadri che riecheggiano nell’opera di alcuni artisti più giovani e che chiudono questo viaggio “aperto” e imperfetto nelle arti visive e nel corpo di una Roma enigmatica e inafferrabile.