Quarto volume di un’elegante collana attenta alle intersezioni fra arte e filosofia, Silenzi eloquenti introduce al pubblico italiano la figura e l’opera di Carlos Martí Arís, architetto spagnolo i cui interessi spaziano dalle arti figurative alla musica e alla letteratura. Discipline che si incontrano, si contaminano e si arricchiscono in una riflessione trasversale sulla messa in opera del silenzio. L’esposizione è scandita in cinque percorsi: lo scrittore argentino Borges, l’architetto olandese van der Rohe, il regista giapponese Ozu, il pittore russo-americano Rothko, lo scultore spagnolo Oteiza.
Secondo l’autore solo a partire dall’esperienza diretta delle opere è possibile costruire una teoria dell’arte, che viene paragonata – con un’efficace metafora – alla funzione della centina nella costruzione dell’arco: necessaria quanto invisibile alla vista. Tuttavia nel testo sono ben operanti dei presupposti teorici forti, impliciti nei capitoli consacrati agli artisti, seppur la loro messa a fuoco si accompagni ad un certo disagio e disappunto. In cosa consiste dunque la “poetica del silenzio” rappresa nell’efficace ossimoro del titolo e ripreso da una frase di Octavio Paz per cui “anche il silenzio è un linguaggio”? Isoliamo tre caratteri: la contemplazione, l’anonimato, l’atemporalità.
Il primo, legato all’introspezione dell’artista che, romanticamente, ha il compito di svelare il mistero del mondo, di portarlo alla luce della coscienza. Il secondo come condizione spirituale in cui l’artista trascende se stesso e la propria epoca, sciogliendosi nell’assoluto. Il terzo, proprio di un’arte universale estranea al quotidiano, che vince la storia e si estromette dal tempo, grazie al principio del “less is more” (van der Rohe) che secondo l’autore guiderebbe anche l’astrazione.
Questo, in breve, il cuore teorico del testo. Nell’anelito alla forma pura, al silenzio cristallino, all’apparizione trascendente che avvicina l’artista al mistico, la ricerca dell’essenziale sembra così sconfinare in una ricerca dell’essenza e del Vero (svelato o recuperato) – insomma in un approccio dai chiari e scivolosissimi risvolti metafisici. In questa cornice non potrà allora stupire la critica apocalittica e senza appello alla pervasività della cultura mediatica, all’ipertrofia delle metropoli fragorose, e soprattutto l’avversione nei riguardi dei movimenti d’avanguardia (divenuta in seguito “stridente esibizione del deforme e del patologico”! alias arte degenerata?). L’autore parteggia
Silenzio versus avanguardia, dunque? Eppure, al primo non è intrinseca una dimensione perturbante, ben rappresentata fra l’altro dagli stessi autori trattati e appena accennata per bocca di George Steiner? E’ possibile ad esempio avvicinarsi a Rothko senza tenerne conto? Ci riferiamo ad un silenzio affatto edulcorato, che da esperienza di un limite si faesperienza-limite, che alla contemplazione oppone il fondo oscuro dell’esistenza; alla luce l’orrore della notte senza forma; all’anonimato la partecipazione ad un campo di forze anonimo; all’atemporalità l’incessante mormorio della morte. Décalages che nessuno come Maurice Blanchot è riuscito ad intonare, e alla cui parole – come antidoto, come pharmakon ad un silenzio perfetto quanto disumano – ci affidiamo ancora oggi.
riccardo venturi
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