Sono partiti da Londra, alla guida di un’auto. Hanno attraversato tre nazioni. E dopo tre avventurosi giorni di viaggio sono arrivati a Milano. Con l’abitacolo stracolmo di assi in legno, fogli di MDF, qualche secchio di vernice, steli di carboncino e acrilico nero. Poi, in poco più di ventiquattro ore, hanno montato, adattato e dipinto il materiale che erano riusciti a trasportare; infine hanno assemblato
We’re In Construction.
Gli artefici di questo
viaggio formativo, più che di
formazione, in bilico tra il compiuto e l’incompleto, tra il bianco e il nero e tra la verticalità e l’orizzonte, sono due insospettabili artisti inglesi, rispettivamente un pittore e uno scultore. Si tratta di
Simon Haddock (Londra, 1970) e
Stuart Chubb (Great Yarmouth, 1970; vive a Londra).
La coppia, del tutto inedita per quanto riguarda gli allestimenti site-specific, le modalità di operare sugli spazi e le loro apparizioni in galleria, lavora agendo una sorta di continuo trattamento morfico nei confronti degli spazi, osmotizzando tanto le metrature che hanno a disposizione quanto quelle sulle quali hanno già realizzato progetti in passato. Le installazioni, all’interno, nascono dalla sensibilità e dalla memoria dei materiali, raccolti a tratti come feticcio, che reagiscono, si trasformano e infine perdono la loro origine, diventando elementi scultorei e supporti pittorici.
In galleria vengono letteralmente montate cataste a strati, pire architettoniche di assi bianche, stratificate e addossate le une sulle altre, per creare un effetto di nascondimento geometrico del reale, che non rende mai del tutto improvvise le visioni architettoniche di Haddock & Chubb. Alle pareti, poi, come se fossero le pagine illustrate di un’opera aperta, su alcuni intagli quadrati di compensato sono appese, dipinte e offuscate tavole composte da sfumature ed elementi arborei astratti, tutti rigorosamente dai toni
noir.
Anche nella sala d’ingresso, quella che introduce agli spazi, sono appesi alcuni piccoli dipinti su tavola; questi ultimi, molto più meditati e meno sfuggenti, sono anch’essi svolti in bianco e nero. Qui, però, i lavori sono tenuti sotto vetro, come se fossero dietro a finestre ricavate da spesse cornici di legno, dipinte anch’esse di bianco e poi rese inconfondibili da una genuina solidità
homemade. Al loro interno, scuri paesaggi senza fondo impastano la leggerezza del carboncino, fungendo da richiamo agli elementi della seconda sala.
Per quanto riguarda la sintonica riuscita di questo
doppio, forse bisogna risalire alla formazione individuale di entrambi gli artisti, che operano senza alcuna regola di fissità. Chubb, infatti, da anni lavora come allestitore con artisti del calibro dei
Kabakov, di
Thomas Demand e di
Rirkrit Tiravanija. Mentre Haddock, artista a tempo pieno, espone e dipinge quasi esclusivamente su materiali di recupero.
We’re in construction è dunque un laboratorio aperto, che suddivide l’ambiente sezionandolo e rendendolo continuamente operante, sulla base del non-finito.