Un saggio di Gilles Clément degli anni ’40 descrive un paesaggio che accoglie la libertà morfologica delle specie e che ospita il loro svilupparsi in spazi sfuggenti e dischiusi. Sulla scorta di questa suggestione teorica,
Dacia Manto (Milano, 1973) ricostruisce la complessitĂ organica in una stratificazione modulare di segni, dispiegando al suolo superfici profonde e sincretiche.
L’artista ordina e dispone percorsi energetici in una sorprendente economia di mezzi: le installazioni guidano topografie immaginarie, nell’intento di “mappare” i luoghi e riafferrare il nodo tra la visione razionale dello spazio e la sua percezione interna. Nelle trame di questi territori metaforici si individuano le strategie di accostamento e appropriazione delle superfici, mentre le compagini oggettuali -simili al
Threadwaste di
Robert Morris– danno forma agli immateriali e alle sostanze intellettuali, concetti e immagini sensoriali. Le installazioni nascono per proliferazione da cellule germinanti e dilagano come un’infiltrazione; Manto riesce a
ri-orientare le planimetrie modulando il vuoto in estensioni brulicanti e condensate.
Nell’esplorazione dell’
Umwelt, nel paesaggio, “
l’uomo non è assente, esiste attraverso lo sguardo che posa sulle cose”.
I calmi gesti ricostruttivi di Manto misurano l’inesattezza della rappresentazione intima dello spazio filtrata dal corpo. L’ambiguità delle installazioni, cullate dalla consapevolezza dell’impossibilità di vedere lo spazio intero, è una concessione all’inafferrabilità dell’ambiente, alla sua irriducibile differenza, e all’imperfezione di ogni sua rappresentazione.
Nello svolgersi del “
percorso erroneo” del lavoro artistico, fatto di tappe mutevoli, slittamenti e sopravanzamenti, Manto piega, cuce, deposita e giustappone, indugiando nella “tessitura” di sottili apparenze e flebili miraggi, che offuscano l’ambiente senza occuparlo massicciamente: quasi dei filtri percettivi, delle condizioni per lo sguardo e per la visione. Il concetto passa attraverso la manualità e i materiali: i media di Manto sono imitati, manipolati e assemblati secondo una finissima intelligenza compositiva delle qualità sensibili. La fragilità delle polveri minerali, la leggerezza delle perle satinate, l’opacità e l’ispido groviglio delle matasse di lana di vetro: come in
Asphalt Rundown di
Robert Smithson, tutto concorre a un esito precario e instabile.
I disegni sembrano il registro delle installazioni, infittiscono il clamore del cambiamento, replicando in modo vertiginoso forme aperte e conformazioni mutabili. Le progressive stratificazioni di grafite riconducono alla componente narrativa del fluire organico: in una scala di leggeri bagliori e penombre, i fogli di acetato soffocano nella saturazione. Il risultato della macerazione traslucida dei grigi è un’immagine colma e otturata, mentre la geografia sembra lavorare all’inverso, moltiplicando i punti di disorientamento.
In una dialettica di accumulo/sottrazione e sostando sulla soglia osmotica del corpo, Manto riflette sull’ambiguità di artificio e naturale, sui processi di conoscenza e sulla nostra frequentazione del mondo.
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mi chiedo cosa abbia assunto chi ha recensito l'articolo prima della visita alla mostra