La donna che questâartista friulana dipinge non è una donna. Non esattamente, per lo meno. Ă unâidea al femminile. Abituato al folklore vistoso delle curve da sfilata e pubblicitĂ , quelle senza mai troppa pelle addosso, lâocchio segue i lavori di
Vesna Pavan (Spilimbergo, Pordenone, 1976; vive a Milano) rimanendo sempre vigile, mai pago, sempre in cerca. La retina dello spettatore sâinsinua tra le pennellate e la carne reale dei collage, con la velocitĂ con la quale una mano passerebbe su un telo, accarezzando rapidamente le coste carnose del velluto scuro. Tessuto pastoso al primo sguardo eppure estremamente inconsistente e sfuggevole a contatto diretto con la pelle.
Attraverso questa breve sinestesia si spiega con chiara semplicitĂ il gioco di trasparenze e di delicati abbagli visivi che queste silhouette in posa, appese alle pareti della galleria, regalano; spandendo, anche se di poco, il loro rigido candore oltre la dimensione ampia e regolare degli spazi attorno. I lavori esposti, una ventina in tutto, rimangono sui muri, come poster dâaltri tempi, provocando unâonda variegata di alternati bianchi e neri, a metĂ tra il dipinto e il collage, tra lâanonimato e il dissolvimento, tra lâevanescenza e la femminilitĂ .
Come se la mano che li ritrae decidesse di retrocedere proprio sul punto che determina lo stile compositivo, dividendo le opere dalla scelta di unâestrema figurazione, queste ombre cave, prominenti e prorompenti, sembrano disegnate in punta di dita, sulla superficie del latte.
Bocche rosse, volti senza sguardi (seppur immaginabili come perfetti), capelli folti, mani longilinee e gambe sode (come solo la perfezione mentale di una donna riuscirebbe a concepirle e a vederle) si trasformano in un miscuglio niveo dal vago sapore retrò.
Lâinconsistenza di questi dipinti resta dunque il paravento ideale che li separa dallâunico concetto di spessore che manca alla serie di lavori esposti. Come una cipria che sfuma i contorni bruciati, infatti, lâimmaginazione di Pavan è un espediente, tra la veglia e il sonno, che allontana e distoglie chi guarda dalla realtĂ imprescindibile della femminilitĂ : la tonalitĂ della pelle. La stessa pelle che odora per farsi carne. Se, dunque, lâunica pecca di questa serie di dipinti, mai dipinti e mai puramente concetti su carta, è e resta lâestrema compostezza dei soggetti, fin troppo languidi e assecondanti rispetto alla canicola estiva, i lavori, nella loro intrigante complicitĂ , riservano spazi per lâimmaginazione da non sottovalutare.
Alla stregua di trappole, di ragnatele tessute per imprigionare mannequin e raffinati abiti haute couture, i corpi di Pavan diventano un tramite per
mandare avanti. Per spingere lâocchio troppo riluttante come quello eccessivamente assuefatto sulla strada della visione; su quel ponte che unisce sazietĂ e disinvoltura, riflesso e incomprensione del sĂŠ, rapiditĂ di fruizione e dolce statica della bellezza.
In un instabile concerto di forme che non parla piĂš allâarte, ma alla funzionalitĂ dellâintraprendenza immaginifica.
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Mi chiedevo, come può aver visitato la mostra il 9 luglio,se l'innaugurazione è avvenuta il giorno dopo?