Ha un sapore un po’ retrò, ma da battaglia come il titolo,
Cafè Kaputt,
la mostra di
Lothar Hempel (Colonia, 1966) da Giò Marconi. Fa pensare a un Cabaret
Voltaire nel deserto, dove sfingi metafisiche e persistenze della memoria si
danno appuntamento tra scenari catastrofici e paradossali.
L’inquietudine passa, infatti, attraverso sfondi e drappi
neri che incorniciano icone della storia dell’arte, innalzate sull’altare
funebre costruito dall’artista tedesco, ma anche dalla percezione del corpo
umano, costretto ad amplessi e innesti improbabili, a galleggiare nel vuoto,
isolato dalla realtà. Hempel non dimentica di esplicitare quale sia l’universo
cui fa riferimento, chi sono i suoi miti, quali le cose che lo entusiasmano.
Così
Arcimboldo stringe
la mano alle sue opere, che ne realizzano in 3d i ghiribizzi pittorici,
simulando tratti tipicamente teutonici,
baffi e capelli tramite elementi arborei e altre fantasie.
Tra i rifiuti compare la copertina dell’album dei Pink
Floyd
Wish you were here, allestita in modo che anche lo spettatore meno attento non possa non
vederla, mentre in uno dei suoi quadri pone in antitesi a una fiamma
psichedelica un romanzo di Alberto Moravia, rigorosamente tradotto in tedesco.
Ma il patrimonio lessicale non si esaurisce qui, in un’opera
che costruisce nuovi immaginari semplicemente montando, e se possibile
esasperando, reperti dal modernismo, con una libertà espressiva e un’attenzione
particolare allo spazio, che diventa il vero protagonista. La realtà, infatti,
si annulla per lasciar posto all’esperienza dell’opera; il luogo che ne ospita
le vicende assomiglia a un set, ormai spento, di una pellicola surrealista,
svelando i trucchi della finzione, riportando l’illusione alla più banale realtà.
Così si scopre che i busti di
Man Ray non sono fatti di carne né di
gesso. Hempel sottrae loro sensualità, sottolineandone l’aspetto simulacrale,
ridicolizzandoli e magari aggiungendo ombrellini (da set) o paragonandoli a soldati di cui recupera la texture mimetica o
affigge ritratti. Entrambi, infatti, sono immobili; entrambi vivono
intrappolati in un gioco di ruoli.
Le foto di attori e ballerini sono ombre sbiadite,
imprigionate nel pattern dei retini che ne definiscono i contorni, come nelle coreografie
che sono costretti a eseguire. Le espressioni del volto restano cristallizzate
nel frame che l’artista ha estrapolato dalla rappresentazione cui partecipano,
congelate, come in un museo delle cere, nell’attimo dello scatto di scena.