La memoria, composta da pieni e da vuoti, nei lavori di
Sam Havadtoy (Londra, 1954) lega e rafforza due sensazioni. Due aperture mentali che esistono nel corpo a livelli differenti, entrambe mischiate come coppie di colori o abbinamenti di materiali, o ancora come commistioni di tessuti, che si sovrappongono, alterandosi e lucidandosi a vicenda.
Si tratta, nello specifico, osservando le opere in mostra, della sensazione del presente e dell’impressione del passato. In corrispondenza mesmerica le une con le altre. Quando queste due realtà diventano irriducibili, per l’artista magiaro si trasformano in veicolo d’espressione.
In definitiva, il fatto che queste due dimensioni estetiche si suddividano in presente e passato è il sintomo della presenza di una direzione (a partire da
Beauties,
The Mystery of Life-series per passare attraverso
Legend of the Legends e arrivare al sardonico
Love is Hell). Il prima e il dopo, così, diventano certezze e sistematicità compositive, che è bene far risalire la loro apparenza a un caso di memoria.
A un rapporto di distanze temporali trattato come un mistero materiale, senza eccessiva importanza.
Si trovano, però, in alcune serie di lavori di cui sono emblematici i quattro dipinti di
The Game, momenti nei quali l’accoppiamento della sensazione di un passato che irrompe, oppure l’abbraccio di un presente che fa retro-front, non ricorrono alla memoria. Proprio come gli scatti del desiderio, così si comporta l’arte a seguire.
Quel che conta, seguendo il percorso di queste cinque sezioni esposte, periodi creativi di Havadtoy, è che egli ha sempre cercato di conferire alle zigrinature dei suoi collage, come agli abbinamenti dei suoi dipinti, l’impostazione di uno scenario autonomo. Al di là dei contrasti. Il suo punto di vista, quello di uomo europeo che esperisce e respira la fine delle avanguardie americane, fa accedere e precipita il vissuto dei materiali che usa, come se questi si trovassero al principio del mondo.
Un famoso aforisma di Havadtoy recita criptico “
I want to be what i was when i wanted to be what i am”. Il leitmotiv di Havadtoy è la creazione decorativa e ricorsiva di un mondo chiuso a tutto il resto, costruito dalla logica di un creatore dove sarebbero sempre rimasti interi e isolati passato e presente.
Se dunque per le leggende brillano stelle di laminato, con
The Monkey King Havadtoy ha voluto invece rendere omaggio a un altro firmamento, quello di
Andy Warhol. Qui i lavori sono ispirati al
Ramayana, il grande racconto epico indiano che narra le avventure dell’eroe Hanumat, il Re Scimmia. “
La prima volta che incontrai Warhol era come il Re Scimmia che, nella versione giapponese, è di pietra e deve essere svegliato alla vita. All’inizio anche Warhol mi sembrò completamente chiuso in se stesso. Rispondeva con un semplice monosillabo -wow!- a tutto ciò che gli si dicesse. Ci vollero diversi incontri prima di scoprire la sua vitalità”, ricorda Havadtoy.
Avvertire l’arte, per questo controverso autore dalle mille esperienze, non è altro che la rivelazione di una scoperta, di un’opposizione che sottolinea un contrasto temporale; un dato rivale che riflette un legame simbolico, fatto di morti e di persone estranee a un mondo forse ormai compiuto.