Dopo
Bodybread,
Bodyspace e
Bodyweb, è ancora il “pane” il fulcro della ricerca di
David
Reimondo (Genova,
1972; vive a Londra) che, da uno studio prevalentemente rivolto alla sfera
privata, in questa personale allestita alla Fabbrica Eos guarda all’esterno. Al
resto del mondo.
Sempre il pane (e nello specifico le fette di pancarré,
divenute impronta distintiva dell’artista ligure) come allegoria del corpo,
dell’uomo. Nutrimento essenziale e indispensabile seppur “non di solo pane vive
l’uomo”. “
Il corpo entra nel mondo, ansioso di viverlo, di pulsare, di
consumare finalmente ogni briciola”: così Jennifer Munoz nel testo che introduce la mostra.
In tal senso va interpretata la performance di Reimondo
durante il vernissage: un’intera parete rivestita da un centinaio di
contenitori per ghiaccio in cubetti in cui precedentemente erano state
congelate alcune briciole di pane. La performance consisteva nel lento processo
di disgelo, fino a lasciare scoperti i pezzi di pane nelle formine divenute
ormai piccoli loculi. Da qui l’inizio della decomposizione. Tutta materia in
movimento. Come portale di “
ingresso nel mondo”, l’installazione è stata
costruita per occupare il principio del percorso espositivo.
A seguire, un
corpus notevole di nuovi lavori, tutti inediti fatta
esclusione per
Pach-World del 2007, traccia della serie
Mondo dunque, di un costante desiderio
d’esplorazione. Pane sottovetro, pane sigillato nel plexiglas. Plastica sciolta
dalla combustione (come nelle
Combustioni di
Alberto Burri, e pensiamo soprattutto a
Rosso
Plastica del
1962). Pane infilzato da lunghi aghi sottili e leggeri, per tracciare lo
scheletro di un flusso profondo.
Sono complessi e molteplici i materiali di supporto
utilizzati e tutti esprimono un’autonoma continuità col passato. Quindici opere
volutamente tutte senza titolo e due installazioni per lasciare spazio alla
libera interpretazione: anche questa è una scelta di apertura all’esterno.
Ogni singola opera si contraddistingue per un alto rigore
formale: le fette di pancarré compongono sempre quadrati di sette, nove, dieci
file. Quasi schemi per declinare all’infinito l’idea del movimento delle cose.
Quel costante mutamento della materia emblematicamente raccontato da un
pannello di fette di pane, che diventa superficie per la proiezione di uno
scorrimento molecolare. E ancora la preziosità del pane che si tinge d’oro.
Pane sigillato nel vetro con milioni di fiammiferi, poi nero, totalmente
carbonizzato. Fette di pancarré racchiuse nel vetro su uno sfondo/cornice di
scampoli di stoffa, di lana, di capelli.
Il tempo scorre e la materia vien messa nelle teche per
ricordarcelo. Il pane, quindi il corpo (l’uomo), entra in relazione con le cose
del mondo, esplorandole. Contaminandosi e rinnovandosi.
Il progetto è ambizioso, anche perché si estende al
coinvolgimento di ogni singolo visitatore: fare esperienza del mondo. Delle
cose. Dello scorrimento delle cose come parte integrante di un processo
empatico.