Graffiti che scendono dai muri e muovono verso di noi, ci vengono incontro, li dobbiamo attraversare, ci attraversano.
Come statue barocche che escono dalle nicchie.
Come i rettangoli meditativi di Rothko che avanzano verso l’osservatore.
Il lavoro di Edoardo Caimi si annuncia qui con tre “piatte” sculture appese , che finalmente risolvono il tema del rendere “opera d’arte autonoma” il graffito parietale, superando il contrasto stridente dovuto (in altri casi) dal prendere “sfregi antagonisti” dai muri della periferia urbana per esporli, così come sono, in una galleria.
Sagome di metacrilato fluorescente, sabbia, inserti organici e sintetici, viti. E subito diventano stilemi e simboli propriamente magici: il dolore per il degrado evoca la ricerca di radici antichissime, con libertĂ di suggestione dalla cultura fantasy.
Richiamando nel titolo un cataclisma del passato, Edoardo Caimi manifesta la sua presenza sciamanica estraniata alla The Address Gallery, con opere allestite secondo un percorso avulso dall’elegante tessuto storico della via e della galleria stessa, così come si annuncia dalle vetrine, che a loro volta, dall’interno, le riflettono sui muri esterni.
Si ha la percezione di avventurarsi nella marginalità del territorio, dell’ambiente-pensiero-uomo, come in un racconto che sembrava proiettato al futuro, ma che in realtà raccoglie (drammaticamente) gli elementi del presente.
Dove i due estremi città -campagna sono uniti già da una rovina che rappresenta quella sorta di apocalisse a cui le immagini rimandano, con un richiamo letterario ma soprattutto cinematografico (in)conscio: sia per formazione del giovane artista che per esito della cultura del XX secolo, dove il cinema è stato la dominante innovazione, le immagini “degli schermi” ( cinema e poi TV, internet…) hanno raccontato l’immaginario e pervaso l’ispirazione, in questo caso della sopravvivenza post-apocalittica.
Questa antinomia viene riprodotta nell’installazione della mostra, che si articola nel “sopra e sotto” della galleria.
Come se tutto stesse ancora per avvenire, in una lotta alla Mad Max, al piano superiore. Mentre nella sala ipogea appare ormai la quiete desolata, da Strange Things, del dopo catastrotofe.
Una sorta di mondo inverso che richiama Orson Wells, ma anche Huxley.
Sopra, oltre alle tre sculture piatte e ammonitrici, si procede tra una tela di provenienza industriale, cromaticamente composta, e una scultura: un bossolo-totem con una collana di denti aguzzi (collana di sciamano ma anche denti dei Morlock di Wells che potremmo trovare nel sotto).
Sotto, la cristallizzazione della contaminazione naturale post apocalittica prende la forma di una composizione spaziale di legni combusti (di estetizzante ma precario equilibrio astrattista) e di un’installazione parietale dove la vegetazione estinta (sterpi inariditi) viene occultata da una lamiera, sulla quale pende l’unica traccia umana, uno zaino, disciolta dal fuoco.
Ma appare come una sorta di speranza la traccia rossa sulla neve di due belle opere fotografiche, che si staccano dalla parete con un alone fluorescente, perché dall’inerzia dello scatto il disegno di sangue vivo indica una ferita ma anche una presenza: una sorta di reazione alla Corvo Rosso non avrai il mio scalpo, richiamata anche da altre tracce umane disseminate attorno ( funghi-chiodati, calzature…).
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