MUNCH La rivoluzione espressionista, Centro Candiani, Mestre, foto Nico Covre
Se c’è un pregiudizio che ancora ostacola l’interpretazione storico-artistica di alcune figure cardine della modernità è quello di ridurle a individui isolati, tormentati, riconosciuti come innovatori solo a posteriori. Il mito del genio solitario — distante dal proprio tempo e incompreso dai contemporanei — continua a esercitare fascino, ma spesso finisce per semplificare una storia molto più complessa. In realtà, risulta molto più fruttuoso fare un passo indietro e osservare la parabola artistica di questi luminari inserendola in un contesto più ampio, di scambio reciproco.
È proprio questo ciò che cerca di attuare il Centro Culturale Candiani di Mestre con la nuova esposizione MUNCH. La rivoluzione espressionista, a cura di Elisabetta Barisoni e visitabile fino al prossimo 1° marzo.
Edvard Munch nasce il 12 dicembre 1863 a Løten, in Norvegia, e cresce a Christiania, l’attuale Oslo. Com’è risaputo, molto presto il piccolo Edvard subirà delle perdite che lasciano un segno indelebile nella sua vita: prima la madre —che muore di tubercolosi nel 1868– e poi la sorella Sophie, qualche anno più tardi. Sono questi episodi traumatici che la storiografia tradizionale ha spesso posto come chiave interpretativa totale, inscrivendo la sua opera nella triade dolore-malattia-genio.
Tuttavia, se l’importanza di queste esperienze formative non può certo essere sottovalutata, la mostra al Candiani invita a spostare lo sguardo: le sue soste a Parigi, i contatti con Van Gogh e Gauguin, i soggiorni in Germania e in Francia, la lettura degli autori simbolisti, l’interesse per il teatro e per il linguaggio psicologico della scena moderna sono infatti tasselli altrettanto decisivi nell’edificazione del pittore norvegese. Le sette sezioni in cui si divide la mostra al Candiani ci aiutano proprio nella riscoperta di come Munch sia stato influenzato da —e di come influenzerà— generazioni di pittori e creativi.
Dal confronto con i fermenti naturalisti e impressionisti di fine Ottocento fino alla sua influenza su alcuni dei grandi autori del dopoguerra —come Renato Guttuso, Emilio Vedova, Ennio Finzi e Zoran Musič— la mostra unisce una serie di importanti prestiti internazionali a lavori provenienti dalle collezioni museali di Fondazione Musei Civici. La Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro conserva infatti ben quattro opere grafiche di Munch, esposte ora in questa occasione. Si tratta delle angoscianti —ma bellissime— Angoscia, L’urna, La fanciulla e la morte, Ceneri.
In questi lavori si può rilevare tanto l’influenza delle correnti avanguardiste europee, quanto la permanenza di miti e immagini del Nord Europa. Scrive infatti Elisabetta Barisoni nel saggio critico che accompagna l’esposizione: «Munch visse questa Europa in fermento, portando con sé dalla madrepatria il suo spirito nordico. Cos’era questo spirito nordico? Era un insieme di immagini e sensazioni derivate dai miti scandinavi, dalle fiabe e i mostri che vivevano nelle foreste silenziose delle saghe islandesi, dai paesaggi desolati e i fiordi dove affioravano draghi, dalle figure tragiche, nevrotiche, cupe, immerse nella solitudine e nell’isolamento che caratterizzavano l’immaginario visivo e letterario norvegese».
La mostra al Centro Culturale Candiani restituisce così un artista tutt’altro che isolato, capace invece di assorbire, trasformare e trasmettere linguaggi: non un visionario separato dal mondo, ma, piuttosto, un uomo in dialogo costante con il proprio tempo —e con quelli a venire. Si tratta —ed è importante sottolinearlo— di una prospettiva che non riduce la portata della sua opera, ma che, anzi, la rende più leggibile, più complessa e più umana.
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