Ipotesi Metaverso, veduta della mostra, Palazzo Cipolla, Roma. Ph. Luca Perazzolo
«L’idea che è alla base della mostra – racconta Gabriele Simongini – e che in qualche modo la rende anche unica, è quella di non continuare con la separazione tra il digitale e il fisico». Con la co-curatela di Serena Tabacchi, “Ipotesi Metaverso”, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale e visitabile fino al 23 luglio 2023 nelle sale del Palazzo Cipolla, Roma, ha voluto superare il modello espositivo finora predisposto allorquando si affronta tale argomento, con mostre che sono o storiche o completamente ipertecnologiche. Avendo una formazione da storico dell’arte, ça va sans dire che a Gabriele Simongini stesse molto a cuore l’idea delle radici storiche, ancor più quando, confrontandosi con alcuni architetti del metaverso, è emerso che, per molti di loro, le fonti sono la computer graphics, il videogame e, in arte (sic et sempliciter) Maurits Cornelis Escher: elementi, questi, che hanno maggiormente corroborato l’idea di costruire una mostra che tenesse insieme passato e presente, reale e virtuale, analogico e tecnologico.
Pertanto, metaverso (leggi realtà virtuale, dove si attua un’interazione di internet come unico mondo virtuale, universale e immersivo, in 3D, incentrato sulla connessione sociale), termine coniato da Neal Stephenson nel romanzo cyberpunk Snow crash (1992), per indicare uno spazio tridimensionale, all’interno del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire, attraverso avatar personalizzati, ha trovato ulteriori sfumature di significato, vedi Steven Spielberg. Come riportato in mostra, nel film Ready Player One (2018), definisce Oasis, «Un posto dove andare senza andare da nessuna parte», per trovare rifugio dallo squallore della vita quotidiana, e dove «Il limite della realtà è la tua immaginazione». Quindi, fisicamente il metaverso non esiste, ma ha notevoli dimensioni. In poche parole, è un universo nell’universo, un universo parallelo. Attualmente, lo utilizzano diverse aziende (tra cui la Microsoft) investendo diversi milioni di dollari, ed esistono circa 141 mondi virtuali, abitati da centinaia di milioni di avatar.
Così, nei 15 ambienti espositivi, 16 opere digitali sono regolarmente accostate ad altrettante opere storico-analogiche, ed è avanzata la tesi che le sue radici possano affondare nell’arte immersiva nel barocco. Il display si palesa sin dalla prima sala, dove le vertiginose prospettive delle architetture inventate nelle incisioni delle Carceri (1749-1761) di Giovanni Battista Piranesi si animano, prendono corpo e concretezza, nel film Carceri d’Invenzione (2020) di Grégoire Dupond (con le musiche di Teho Teardo). Altresì si svela pure nelle brevi frasi, anche di scrittori antichi, disseminate lungo il percorso, con l’intento di annullare possibili divari. Tra tutte, quella di Giordano Bruno che, nel 1584, scrisse: «Io penso a un universo infinito. Stimo infatti cosa indegna della infinita potenza divina che, potendo creare oltre a questo mondo un altro e altri ancora, infiniti, ne avesse prodotto uno solo, finito».
Troviamo, allora, affiancati, alcuni anche in maniera piacevolmente sorprendente, Maurits Cornelis Escher (con suo poco visto Planetoide tetraedrico, 1954) e Andrea Pozzo (col Bozzetto della cupola della chiesa di sant’Ignazio del Loyola, 1685) a Pier Augusto Breccia e Fabio Giampietro (con la sua suggestiva installazione immersiva interattiva Aiora: floating tales, attraverso la quale dondolarsi tra le vorticose architetture newyorkesi che evocano quelle di Metropolis). Umberto Boccioni (Forme uniche della continuità nello spazio, 1913) a Mario Klingemann (con la sperimentale e immensa Memories of Passerby¸2018). Poi ci sono presenze inaspettate, come Piazza d’Italia con Arianna (1962) di Giorgio De Chirico, vicino a Eco e Narciso (2017-2018) di Giulio Paolini. O presenze inedite e preziose, come fuse* (con la suggestiva e ammaliante installazione Multiverse .echo, 2023) e Pak (con l’ipnotico Merge, 2021). O la muscolare Machine Hallucinations Perennial Pigmentations – A – 02 (2021) di Refik Anadol. Ovviamente sono presenti anche lavori da esperire attraverso visori, come l’immersivo, delicato quanto zen, Regenesis (2021) di Krista Kim, e The Bacchanalis Ones (2021) di Federico Solmi.
Tenendo presente che sarebbe più opportuno parlare di “metaversi”, perché le piattaforme esistenti sono molteplici, e che “il metaverso esiste ma non esiste”, dato che il totale e concreto utilizzo ha attualmente costi che in pochi possono affrontare (per questo i curatori avanzano “ipotesi” di metaverso), oltre al desiderio di rintracciare le possibili radici storiche dell’attuale sviluppo tecnologico, oltre a porre a confronto opere solo apparentemente antinomiche, l’esposizione invita anche a delle ulteriori riflessioni.
Innanzi tutto, solo attraverso una pacifica convivenza di entrambe le dimensioni, senza che quella tecnologica soffochi e soppianti quella umana, si può raggiungere un buon equilibrio tra gli “apocalittici” (basti pensare al testo di Eugenio Mazzarella, Contro metaverso. Salvare la presenza, 2022) e gli “integrati”, affinché il virtuale non sostituisca l’esperienza reale fisica e sia, anzi, un processo parallelo, un valido strumento nelle mani dell’uomo, ponendo sin d’ora le basi (anche normative) della coesistenza. Perché, dobbiamo prepararci a viverlo, come a fronteggiarne i rischi (tra cui la privacy e la sicurezza) e le incognite.
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