Dopo la mostra al Museo Madre in dialogo con Mathelda Balatresi, Veronica Bisesti (Napoli, 1991) inaugura la sua prima mostra alla galleria Alfonso Artiaco, ispirata all’opera letteraria di Christine de Pizan, Cité des Dames (1405). «Ahimè, mio Dio, perché non mi hai fatto nascere maschio. Tutte le mie capacità sarebbero state al tuo servizio, non mi sbaglierei in nulla e sarei perfetta in tutto, come gli uomini dicono di essere». Queste le parole di una donna rimasta vedova a 25 anni, che grazie all’educazione ricevuta per volontà del padre, consigliere personale di re Carlo V, si dedicò alla scrittura con l’intento di dare lustro al genere femminile.
Nella Città delle dame, sotto la guida di Ragione, Rettitudine e Giustizia, Christine narra di una visionaria città fortificata, abitata solo da donne: regine, guerriere, poetesse, indovine, scienziate, martiri e sante. Figure che Pizan aveva attinto dal corpus di opere presenti nella Biblioteca Reale del Louvre, a cui aveva avuto libero accesso durante la sua formazione. Bisesti sembra voler dare un volto alle eroine narrate dall’autrice, sicuramente una delle personalità più affascinanti e rivoluzionarie del Medioevo.
Già dall’inizio del percorso espositivo ci si sente avvolti da una nebulosa che ricorda la visione di un classico cielo blu, di quelli che fanno da sfondo alle pale medioevali ma in versione parietale, come la scena di un set cinematografico di Michel Gondry. Al centro, una piccola miniatura, delle dimensioni di un codex, ritrae Pizan nel suo studio, nella sua assorta solitudine. Poco distante, una sorta di cannocchiale, una scultura in ottone coralliforme invita a una visione del mondo polimorfica.
L’avvenimento, a cui il visitatore è invitato, è quello di una pioggia di stelle, un momento primordiale che, a differenza della nebulosa, viene contenuto dalla cornice come se fosse visto dall’interno di una finestra, in questo modo attivando un processo di reaction a cascata mentale che perdura in tutta la mostra. A testimoniarlo sono le nove pietre rivestite in nichel, disposte su tutta la sala come resti archeologici, che conservano il nome delle donne forti, fondamenta della città : Camilla, Caterina, Semiramide, Medea, Elena, Didone, Cassandra, Griselda e Pentisilea.
Tra i vuoti che distanziano le testimonianze di un evento epifanico, Bisesti fa dialogare tre disegni dalla delicata stesura, ritraenti tre figure femminili dai lunghi capelli nell’atto di coltivare, mangiare e procreare una stella, simbolo di un’energia cosmica dai poteri spirituali rigenerativi. Il buio avvolge queste figure salvifiche così come protegge le radici di fuoco, protagoniste di un grande acquerello, che allude alla centralità di un fulcro che ha radici ben più profonde ed estese di quel che si vede in superficie.
Un grande faro immerso nel tepore di un giallo radiante sembra voler illuminare le sale successive in una diagonale prospettica che bagna idealmente di luce prima una grande foglia di aloe, una scultura di ottone lucente che, grazie alla modularità delle sue spine, diventa nuovo strumento di misurazione per l’edificazione di una città futura; e poi una pietra di ossidiana in cui affondano, come uno Specchio, «Le venature, le interiora, il profondo, l’origine». C’è un alternarsi di zone di luci e ombre anche nel ciclo di disegni Siamo il passato oscuro del mondo, che trova un’eco nella letteratura femminista di Pizan ma che Bisesti riesce a far emergere nel presente, come un messaggio segreto da tramandare, nel tempo.
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