Lucio Fontana Coccodrillo, Crocodile, 1936-37. Terracotta smaltata e dipinta: verde, rosso e giallo. Glazed ceramic: green, red and yellow cm 18 x 130 x 42 Karsten Greve, St. Moritz © Fondazione Lucio Fontana, Milano, by SIAE 2025
Coccodrilli, granchi e farfalle, un monumentale busto augusteo, sfere tagliate, crocifissi smaltati e una miriade di busti femminili: dal punto di vista scultoreo, l’universo di Lucio Fontana (1899 – 1968) è un vasto alternarsi di tecniche, superfici e colori.
È proprio questa pratica vivace e proteiforme che costituisce il tema fondante dell’esposizione a cura di Sharon Hecker in corso alla Peggy Guggenheim Collection di Venezia. Mani-fattura: le ceramiche di Lucio Fontana è infatti un affondo storico-critico —attraverso una settantina di opere da collezioni pubbliche e private— nel lato meno conosciuto della produzione del grande maestro italo-argentino. Una produzione, in ogni caso, essenziale. La ceramica e la pratica scultorea hanno infatti accompagnato Fontana per tutta la sua carriera, a partire dagli anni formativi trascorsi sotto l’egida di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera, passando per il trauma della guerra e dell’instabilità socio-politica con cui Fontana si trova a fare i conti così spesso nel corso della sua vita.
Come scrive lui stesso: «Avevo solo diciassette anni. Mi sono arruolato volontario nell’esercito italiano. Ho visto e vissuto tutto l’orrore dei campi per due anni. Dopo la Prima guerra mondiale, l’amaro sapore della tragedia e il desiderio di tornare a casa in Argentina, pieno di tormento e deluso. Ho vissuto il campo di battaglia in tutto il suo clamore…. È stato questo a farmi decidere per l’arte e per l’espressione esterna di tutte le reazioni che mi aveva provocato. Dopo i vent’anni ho iniziato a modellare».
Nella mostra —la prima mai realizzata in un museo italiano dedicata esclusivamente alle opere in ceramica di Fontana— si scopre un artista policromo, forse più libero e giocoso di quanto i libri di storia dell’arte tendano a ricordare. La sala dedicata agli anni Trenta, ad esempio, propone una moltitudine di animali in ceramica smaltata come coccodrilli, cavalli marini, farfalle dai colori lucenti: sono opere che mettono in luce un atteggiamento ludico e di ricerca iconografica diverso dalla serietà ieratica dei famosi tagli.
Nel Dopoguerra, la ceramica di Fontana s’intreccia con la produzione di crocifissi smaltati, busti e figure femminili in cui emergono i segni delle sue sperimentazioni spaziali: incisioni, fori, spremiture della creta che prefigurano le sue tele tagliate. Sarà proprio tramite la ceramica che Fontana comincerà a ragionare nello spazio: il vaso, la sfera, la lastra smaltata diventano “corpi” da attraversare, da perforare, da aprire. Il foro e la fenditura, gesti che l’arte del Novecento identificherà con il suo stesso nome, qui si fondono con l’argilla morbida e con la manualità evidente.
L’ultima sala della mostra illustra proprio questo indissolubile connubio tra il Fontana spazialista e il Fontana scultore. Molte delle sue ultime opere, qui presentate, sono terrecotte ruvide, semplici e disadorne: in alcuni lavori apre la creta a mani nude, lasciando visibili le tracce dei propri polpastrelli. Le Nature, poi, sone grosse forme sferiche o ovoidali che Fontana taglia, buca, squarcia: sono sculture che rimandano all’immagine del seme o dell’uovo.
Queste e le altre opere in mostra invitano dunque a ripensare Lucio Fontana al di là del mito dello Spazialismo e dei tagli: le ceramiche rivelano una ricerca più fisica, più imperfetta, in cui l’artista ritrova la propria umanità nel gesto manuale.
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