Quando una mostra funziona (?!)

di - 1 Ottobre 2019

Una delle caratteristiche che maggiormente descrive gli ultimi anni, dal punto di vista della gestione museale, è la crescente importanza che le “mostre” rivestono nella programmazione culturale degli istituti museali.

Le motivazioni di tale interesse sono molteplici: la mostra è in primo luogo un evento, e questo è un elemento estremamente importante per le attività di promozione. Non si tratta di una banalità: un percorso espositivo con una data di inizio ed un termine definiti, noti con un discreto di anticipo, consente di poter strutturare una serie di attività (che nell’accademia prendono il nome di event marketing) il cui scopo è quello di aumentare l’attesa e l’aspettativa, e creare quell’aura di must-visit che caratterizza tutte le esposizioni di successo.

Ricordate, qualche anno fa, “La Ragazza con l’orecchino di Perla” a Bologna? Un’intera città ha percepito come estremamente importante l’esposizione. Il dipinto di Vermeer era praticamente ovunque, dai tabacchini ai negozi di abbigliamento, dai poster ufficiali alle fotocopie in A4 a bassa risoluzione delle vetrine delle strutture ricettive più modeste.

Giacomo Zaganelli, Grand Tourismo

Effetto analogo ha riscosso la mostra “Grand Tourismo” che è divenuta la mostra più visitata nella storia degli Uffizi di Firenze.

Sono tante le variabili che possono determinare il successo o l’insuccesso di un progetto espositivo temporaneo: comunicazione, qualità del progetto, flusso medio di visitatori, periodo dell’anno, titolo della mostra, solo per citarne alcuni.

Nel caso di “Grand Tourismo”, ad incidere è stata sicuramente la capacità di mantenere alto l’interesse nel tempo. Una mostra con un tempo di esposizione così alto rischia di far dissolvere quei connotati (inizio – fine) che tanto aiutano nella programmazione degli eventi culturali.

È questo il punto che bisognerebbe meglio mettere in luce, perché una mostra così lunga esprime caratteristiche affini a quelle di una “collezione permanente”.

Al contrario delle mostre, infatti, i nostri Musei perdono molta inventiva e capacità di attrazione di grandi flussi (cittadini e turistici) quando ad essere esposti sono i capolavori della propria collezione: sono rari gli interventi di comunicazione che le amministrazioni museali dedicano alla propria collezione.

In questo senso, possiamo dirlo, i Musei possono imparare da loro stessi.

Giacomo Zaganelli, Grand Tourismo

Sarebbe interessante vedere i risultati raggiunti nel momento in cui le nostre amministrazioni culturali (e non solo museali) iniziassero ad adottare le stesse dinamiche, lo stesso sforzo di condivisione con la cittadinanza, le stesse attenzioni poste nel raggiungere visitatori organizzati, le stesse attività di promozione (comunicazione e marketing) che solitamente vengono poste nelle Mostre anche con riferimento ad un dipinto o ad una specifica narrazione presenti in modo permanente nella propria collezione.

Detto in altri termini, quelle persone che comprendono che non basta interesse per suscitare interesse, e in genere si impegnano anche a saper comunicare meglio con le persone, coinvolgendole, e riuscendo a condividere spesso le proprie passioni.

Sono persone che hanno compreso l’importanza di una connessione con gli altri.

L’empatia è fondamentale per la comunicazione. Si sa.

E nel caso dei musei, così come per tutte le organizzazioni, l’empatia non la si crea se non attraverso organizzazione, la costruzione di una metodologia di lavoro precisa e la definizione di obiettivi di connessione con il territorio, con la cittadinanza e con i visitatori vicini e lontani.

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