Shilpa Gupta, 100 Hand-drawn Maps of Italy, 2007-2023,, tavolo, libro, ven+latore, dimensioni variabili, Courtesy: l’artista e GALLERIA CONTINUA, Fotografa: Ela Bialkowska, OKNO Studio
Un intreccio di fili colorati a formare infiniti rettangoli su una tela bianca esemplifica il sogno di una terra senza confini: sono tutte le bandiere degli stati del mondo (anche quelli non riconosciuti) inserite le une alle altre, le une a fianco le altre. Untitled (Rectangles on flags of the world) 2021-2025 è il primo lavoro dell’artista indiana Shilpa Gupta che incontriamo a Galleria Continua a San Gimignano, in corso fino al 7 settembre. Si tratta di un’opera pensata per quella sala, a introdurre fin da subito uno dei temi principali dell’artista di Mumbai che elabora una riflessione critica sui temi politici e sociali, dai confini geopolitici alle migrazioni, dalle identità alle narrazioni del potere. Il suo stile corre sul filo di un’astrazione poetica che traccia solchi profondi nella visione. E si manifesta con diversi mezzi espressivi. Simile al lavoro sulle bandiere fatto con il ricamo sulla tela ha creato Untitled (Stars on flags of the world). Il lavoro è dedicato alle stelle sulle bandiere del mondo, rappresentate però con dei fili che cadono per romperne la compattezza, a indicare che c’è una storia di quei simboli che va riscritta: come quella coloniale.
La sua indagine artistica sui confini si unisce spesso anche al tema della percezione. Un esempio è 100 Hand-drawn Maps of Italy (2007-23), un progetto in cui 100 persone hanno disegnato su un album l’Italia così come la ricordano. Delle mappe mentali a sottolineare che nessuna mappa è completamente «corretta». La forza e la delicatezza delle linee astratte nere su foglio bianco diventano confini attraversati e disegnati sulla base dei racconti dei migranti Nothing Will Go on Record (2015). Lo studio dei limiti prosegue in Untitled (2020), dove una pietra di fiume raccolta in una zona di frontiera e una lampadina interagiscono come in una conversazione. Quando una si solleva, l’altra si abbassa. Nel momento in cui si avvicinano, la luce si accende brevemente illuminando la superficie grigia e brillante del sasso. Sebbene si sfiorino, non si toccano mai veramente; il loro scambio rimane fragile e precario, sottolineato dal rischio costante che la pietra possa colpire e rompere la lampadina.
È la metafora della difficoltà del dialogo: la luce è l’intelletto, la pietra è la forza. Shilpa Gupta affronta anche il concetto di prospettiva, ovvero del come guardiamo alle cose intorno a noi. Un processo che nasce da una sua riflessione personale sulla sua percezione delle città in cui è nata: Mumbai. La sua «città», per lei che veniva dalla periferia, quando doveva raggiungere il centro assumeva altre forme e significati, era una megalopoli riletta in un suo viaggio intimo che generava altre immagini e forme. «A volte per caso, a volte deliberatamente, guardando la stessa struttura da una prospettiva diversa, è emersa una nuova narrazione», racconta l’artista. «Potrebbe essere leggermente diversa o addirittura del tutto contraddittoria, costringendomi a riconsiderare e rielaborare ciò che pensavo di sapere e come lo sapevo. Questo processo può essere frustrante, gratificante e a volte persino destabilizzante». Questo è la riflessione da cui è partita per realizzare Truth, l’opera composta dalle lettere della parola verità in inglese che campeggiano nella «platea» dell’ex cinema-teatro di San Gimignano. Questa parola Verità, che attraversa i secoli con significati fondativi e contradditori: da termine filosofico a strumento manipolatorio usato da politici per conquistare consenso. Invocata e brandita per avere ragione o rivendicare giustizia, a seconda della prospettiva da cui la si legge.
Se la si vede dall’alto dell’ex-cinema teatro, si percepisce una parola scomposta come se si fosse perso il vero significato. Al contrario, se si scende e si cammina tra le lettere monumentali la visione cambia: sembra che stiano per crollare addosso. Un modo per interrogarsi sul rapporto tra il potere e la narrazione di se stesso. Come non pensare al presidente degli Stati Uniti, che nelle proprie esternazioni brandisce questa parola sempre più spesso, svuotandola di senso? Ci sono altri lavori incentrati sulla parola e sul suo uso che danno forza a una ricerca estetica di ampio spettro e di grande valore. Sound On My Skin è un tabellone come quello ferroviario, o degli aeroporti, che al posto degli orari e delle destinazioni fa scorrere parole su una riga sola scandite a tempo, intorno al concetto di confine, nazionale ma anche interpersonale, e sul ruolo della tecnologia.
«La mia ricerca è rivolta a studiare come la gente fa proprie le parole dei poeti e come ciò rende viva la poesia». Ma non solo le parole sono molto presenti in altre opere. Un’altra installazione Untitled (2023), fa provenire da microfoni cablati invertiti una voce recitante i nomi di 100 poeti di Paesi ed epoche diversi e gli anni in cui sono stati detenuti e incarcerati dai rispettivi Stati. E, nel giardino della galleria, un cerchio a terra creato con una frase ci fa pensare come e perché guardiamo al cielo. È l’opera Deep Below the Sky flows under your feet too: Shilpa Gupta scrive sull’erba per innescare un dialogo immaginario con il cielo che non ha confini. Forse è per questo che lo contempliamo con quando vogliamo perderci provando un senso di libertà? O forse è perché, come scrisse Oscar Wilde: «Siamo tutti nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle».
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