Categorie: Musica

Il nucleo espanso dell’Aida verdiana, nella rilettura di Damiano Michieletto

di - 7 Luglio 2025

C’è un confine, raramente esplorato, in cui la regia lirica non si limita a illustrare o ad attualizzare ma diventa reale estensione poetica e filosofica del contenuto musicale e drammatico. Con la sua Aida allla 87ma edizione del Maggio Musicale Fiorentino – il 19, 22, 25 e 28 giugno e il primo luglio 2025 – Damiano Michieletto ha varcato questo confine. Quando la regia possiede tale grado di intelligenza, cultura visiva e capacità di ascolto profondo, può generare satelliti di verità e di bellezza, liberi e gravitazionalmente legati al nucleo originario, nel nostro caso, la musica di Verdi.

Già la partitura spinge oltre l’attesa: Aida è tra le opere definite “wagneriane” della vasta produzione verdiana. E non certo per i contenuti, quanto per la struttura delle frasi musicali: lunghe, fluviali, a volte maestose, come interminabili arcate sonore che, quali ponti sospesi, collegano dramma storico e interiorità atemporale, azione teatrale e indeterminata sospensione. Verdi vi scolpisce inoltre il silenzio, con la stessa attenzione con cui plasma il suono.

La regia di Michieletto amplifica queste dimensioni. La scena, firmata da Paolo Fantin, sembra uscita da una fotografia di Thomas Ruff o di Candida Höfer: piani netti, tagli spietati, superfici cromatiche ridotte a pochi, potenti contrasti. Le pareti celesti e il giallo acceso dei costumi evocano inesorabilmente i colori della bandiera ucraina, un richiamo alla storia presente che si fa allusione, non didascalica né banalmente celebrativa, al perdurante conflitto. L’impatto visivo, mai retorico, attira l’attenzione del fruitore tanto quanto la musica, producendo sinergica amplificazione dell’emozione intellettuale.

Aida, regia di Damiano Michieletto, Maggio Musicale Fiorentino, 2025. Ph. Michele Monasta

Il soffitto, forato e spezzato come un grande cielo lacerato, ricorda le tele squarciate di Lucio Fontana, una “Fine di Dio”, generata dalla violenza umana e non dal gesto artistico, che diventa metafora di una trascendenza negata o forse ancora da conquistare.

Sul lato destro della scena, un cumulo di terra reale (come in certe installazioni di artisti contemporanei, quali ad esempio le piramidi di sale che Mimmo Paladino realizzò nel 1995, in Piazza Plebiscito, a Napoli) segna lo spazio della memoria, della morte, della verità sepolta, solo da ultimo, suggerendo la iconica, egizia figura piramidale.

Aida, regia di Damiano Michieletto, Maggio Musicale Fiorentino, 2025. Ph. Michele Monasta

L’acme, come spesso accade, giunge nel finale ove quello che generalmente è atteso come il solito effetto scenografico con il quale si conclude la vita degli sfortunati amanti, si trasforma qui in una soluzione di genio. Mentre Amneris, relegata nella parte inferiore del palcoscenico, quasi in una tomba buia e terrosa, vive la sua esperienza di morte, privata di ogni luce, Aida e Radamès salgono verso un altrove di pace, luminoso, in una lentissima, poetica ascensione scenica. Una tomba, quella degli innamorati che, invece di rinchiudere e serrare, suggerisce loro e al pubblico sentimenti di apertura e di leggerezza, portandoli a esperire la mite e non caduca gioia della realizzazione.

Aida, regia di Damiano Michieletto, Maggio Musicale Fiorentino, 2025. Ph. Michele Monasta

Ecco allora la risposta al nostro quesito: può una regia aggiungere senso distinto all’opera, senza tradire l’autore? Può il regista far gravitare il proprio, distinto, satellite artistico, attorno al nucleo musicale, lasciando lo spettatore in bilico tra emozione musicale e scenica, come Aida tra l’amore del padre e quello per Radamès?

Dopo quest’opera, la risposta è un convinto sì. Michieletto non invade, non manipola ma espande il significato drammatico, spingendolo “oltre”, al di là del limite, verso le dimensioni alte del vero e del bello.

Aida, regia di Damiano Michieletto, Maggio Musicale Fiorentino, 2025. Ph. Michele Monasta

Musicalmente, la direzione di Zubin Mehta aggiunge un ulteriore strato di consapevolezza. La sua lettura senile – nel senso più rispettoso e ammirato del termine – ha il colore sfibrato e dorato dell’ultimo Tiziano, nel momento in cui esso si fa tinta spirituale e la materia allenta i propri legami, prima di disfarsi. Allo stesso modo, la musica diventa rarefatta, rassegnata ma sempre forte di consapevole bellezza, un continuum lirico che abbraccia, circonfonde, sospende e smarrisce il fortunato spettatore.

A tratti, la scena sembra quasi una partitura visiva: la bambina in equilibrio sulla sbarra, metafora fragile e potente dell’incertezza decisionale di Aida che non sa scegliere tra i due amori, diventa il simbolo stesso della musica, della voce, della vita sospesa sotto l’incombenza della guerra nell’affermazione di un nefasto umanesimo del male.

Al Teatro del Maggio, nelle sere di Aida, tutto sembrava gridare all’unisono: il teatro musicale può ancora parlare il linguaggio del nostro tempo, senza nulla perdere della propria originaria potenza emozionale.

Uno spettacolo del genere necessita di grandi artisti come Mehta, Michieletto, i Professori della straordinaria orchestra del Maggio e i solisti tutti. Costoro, comunque, non avrebbero potuto ottenere tale resa senza il catalizzatore necessario: l’alta competenza del soprintendente Carlo Fuortes. Salutiamo in lui l’artefice della vera rinascita di questo Teatro. A esso tre volte grazie: per Salomè, per Der Junge Lord e per questa Aida. Ad maiora (ma basterebbe anche continuare così)!

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