Cos’è che fa Italia? Un tempo col termine patriottismo si risolveva il problema di coniugare ideali e luoghi distanti da un capo all’altro della Penisola. Oggi, caduto in disuso perché accoppiato all’aggettivo “retorico”, della disgregazione culturale se ne fa quasi un’arma di partito federalista e allora, per sentirsi in Italia dentro e fuori dai confini geografici, non rimangono che le mode incanalate nelle canzoni, nel nuovo finger food, nei reality e nei cellulari.
Ma qualcuno pensa ancora che per Italia si possa intendere un’identità culturale? Mettono sul tavolo alcune proposte i fab four Giggiotto del Vecchio, Alessandro Rabottini, Elena Lydia Scipioni e Andrea Villani in età under 40, che sotto l’egida di Danilo Eccher hanno tracciato una linea continuativa tra le opere del supermarket
Italie di non immediata comprensione. Proprio perché il concetto astratto dell’italianità vive e prospera nella diversità dei punti di vista di chi, magari, è diventato italiano con il permesso di soggiorno.
Alighiero Boetti e
Gino De Dominicis, gli unici due artisti storicizzati, rappresentano una doppia forma d’espressione: l’innovazione nella raffigurazione con l’arazzo di
Kabul Nuova Repubblica Democratica d’Afghanistan, una
Mappa del ‘78 e la visibilità dell’immaginazione nel
Cubo invisibile (1967) del secondo.
La situazione politica risulta l’aspetto di maggior interesse, che si tratti di eventi divenuti storia, come i bombaroli anni ’70 in cui
Seb Patane interviene su immagini preesistenti cancellando l’identità del fondatore di Lotta Continua, Luigi Bobbio, arrestato il
16 gennaio 1968, oppure che si concentri per il collettivo
Claire Fontane sull’omicidio di Giuseppe Pinelli, trovando la sua forma concettuale nella scritta
Ucciso Innocente o sulla globalizzazione musulmana che invade lo stivale in
Visions of the world.
Un’appartenenza nazionale espressa nella sofferenza degli
Stranieri di
Mircea Cantor -pane spezzato dal sale del mare, affrontato dagli immigrati clandestini- e nella volontà di attivare la coscienza collettiva per
Villa Lituania, sede dell’omonima ambasciata negli anni ’30 e attualmente occupata dalla Russia: per la sua liberazione,
Nomeda & Gediminas Urbonas hanno realizzato ora anche alcuni manifesti.
Ferite abbandonando la terra d’origine e lacerazioni nel corpo: l’ossessione del rapporto col cibo pulsa da
La Battaglia dell’Integrale, manifesto di
Jonathan Horowitz affisso in strada. E, ancora, l’identità sessuale de-privata della propria intimità nell’interpretazione Oliviero Toscani’s style di
Paola Pivi: un fisico femminile provocatoriamente
Untitled, basta che sia perfetto, a tutti i costi. Cambio di interpretazione, infine, nel
Canal Grande di
Stefano Arienti, moderna ricontestualizzazione delle settecentesche vedute che diedero vita al format della penisola sole e mare in cartolina.
Cosa aspetta gli italiani di domani?
Dora García suggerisce profeticamente:
Le futur doit être dangereux.
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quattro curatori per una mostra del genere... poi ci si chiede perchè la Biennale di Venezia non viene affidata ad un curatore italiano
ma un cmmento nel merito di ciò che si è visto, no vero??? mai???
invidie sentenziose e niente più.