Una mostra in cui Fabrice Bernasconi Borzì, nato a Ginevra e tornato a vivere a Catania nel 2018 si racconta. Un viaggio a ritroso, una riflessione su sé stesso che rivela una dualità ricorrente nella sua creazione artistica ma anche nella sua personalità.
Convivono due cittadinanze, due anime, due attitudini nei lavori di Fabrice Bernasconi Borzì. «Questo corpus di riflessioni non intende spiegare cosa stiamo guardando bensì guarda al qui ed ora della nostra presenza, esistente, materica e toccante» come spiega Elsa Barbieri, autrice del testo critico che ci accompagna nella lettura della mostra. L’installazione one last tango, fulcro della sala principale della galleria, avvia la prima riflessione, si può identificare la danza come una delle possibilità dell’esistenza? Due lame sospese dal soffitto, realizzate a mano, che, attivate da un impianto analogico, danno vita a un movimento. Una danza della durata di 3 minuti, in cui si incontrano, si scontrano, si toccano e si allontanano.
«Perché la danza, come il toccare, è movimento e rappresenta in sé la manifestazione del corpo ontologico, unico senso dell’esistenza. Il toccare danzante che appartiene all’opera, […] ci consente un abbandono radicale all’esistenza che apre lo sguardo alla singolarità plurale dell’esistente e ci restituisce a pieno il senso della libertà.»
Due lame che custodiscono un silenzio fremente interrotto dal rumore assordante del loro tocco, metafora di una stabile disarmonia in cui convivono movimento e immobilità. Popolano la stessa stanza anche due ritratti, un uomo e una donna, due silenziosi spettatori della danza, i primi. Un’opera autobiografica, riflesso della personalità del suo creatore, in cui dialogano la leggerezza, la gioia di vivere e il calore, propri della cultura mediterranea, e la freddezza, in termini materici, più vicina al rigore svizzero. Ma one last tango, è anche un’opera collettiva, l’artista se ne distacca, lasciando a chiunque la possibilità di partecipare a questa danza che ipnotizza i propri spettatori. Il percorso poi prosegue con this could be. Dove situazioni quotidiane, icone e simboli del Sud italia, vengono riprodotti con stampe in quadricromia incollate su pannelli di legno, diventando configurazioni per installazioni future.
Infine, un cartello, ci ricorda che abbandonarsi ogni tanto è utile, con il tipico fare artistico di Bernasconi Borzì, semplice, minimale, impulsivo e paradossale. Un linguaggio spesso provocatorio, tradotto nella realizzazione dei suoi cartelli, ispirati a quelli che i manifestanti tengono tra le mani, che riportano giochi di parole spesso autocritici.
Il lavoro di Fabrice Bernasconi Borzì è quello di un moderno Marcel Proust, raccoglie impressioni collegate alle proprie sensazioni, come racconta lo stesso artista, «queste impressioni si sarebbero rinforzate, avrebbero assunto la consistenza di un tipo particolare di piacere, e quasi di un quadro d’esistenza che avevo, d’altronde, raramente occasione di ritrovare, ma nel quale il risvegliarsi dei ricordi poneva nella realtà materialmente percepita una parte abbastanza grande di realtà evocata, pensata, inafferrabile».Primo spettatore di sé stesso, l’artista si considera «spugna e un ladro di idee, ma che lavora sodo per essere, veramente, quello che è», portando avanti un convinto tentativo di attuare un’inversione di marcia, uno slittamento dall’avere al sembrare.
Creare sovvertendo. Abbandonarsi all’otium per avere le forze di alzarsi. L’abbandono è un atto di grande determinazione e Fabrice Bernasconi Borzì lo ricorda a tutti noi.
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