Che aria tira a Brescia, dove vivi?
Brescia è una città intellettualmente pigra ma in questo momento sta vivendo un timido risveglio. Chi non è scappato comincia a premere per fare delle cose. Si stanno creando situazioni interessanti, ci sono realtà neonate meritevoli di attenzione.
Che formazione hai?
Ho intrapreso studi filosofici da pittrice, per così dire. Quello che faccio è il frutto di queste due impostazioni, di questi due modi di intendere la ricerca.
Come presenteresti il tuo lavoro?
Con il mio lavoro intendo riscoprire la radice metafisica del quotidiano, svelare in esso la nascita e l’urgenza della teoresi. Credo che la mia ricerca si possa approcciare facilmente, in modo intuitivo. Semmai a essere ricche sono le implicazioni concettuali, con molti possibili risvolti.
Dov’è che lavori? Come procedi?
Lavoro in due luoghi distinti: un luogo piuttosto asettico dove disegno e progetto, con i libri, il computer e il tecnigrafo; un altro, destinato al lavoro manuale, è la stanza di una villetta a schiera condivisa con altri artisti-artigiani. Sono un po’ una donna-spazzatura, nel senso che recupero di tutto e resto in attesa che ogni cosa trovi una sua funzione. Anche se è difficile che poi succeda davvero. Il risultato è una lotta perenne contro la tendenza entropica al caos, un continuo sperimentare come sopravvivere al caso. Qualcosa che, in effetti, torna nei miei lavori, nei quali per paradosso la dimensione oggettuale finisce per essere quasi irrilevante. Provo una magnifica sensazione di sollievo quando realizzo un lavoro che non entra a far parte del reale come oggetto, quando la materia eterogenea da cui attingo è trasformata in azione, vuoto, pensiero.
Cosa serve per fare gli artisti?
Imparare a guardare. Determinante è anche la solitudine. Si tratta di sperimentare molteplici modi di esperire. Credo sia fondamentale avere una matita in mano e un libro che si desidera leggere.
Tu a quali big hai guardato?
Antonin Artaud, Giulio Paolini, Jannis Kounellis, Italo Calvino. Come pittrice a Giotto, Francis Bacon, David Hockney.
Come ti descriveresti caratterialmente?
Sono il tipo che drammatizza, che tende a fare dell’arte una questione di vita o di morte. Anche fuori del lavoro è così, ma almeno mi sento giustificata: lì si tratta effettivamente di una questione di vita o di morte.
E la realtà come attualità?
All’estero è più semplice affrontare temi scottanti attraverso l’arte visiva. In Italia tutto si trasforma in commedia, in uno spettacolino. È piuttosto difficile trattare problematiche legate all’attualità socio-politica senza strumentalizzare o essere strumentalizzati.
Chi è davvero importante attualmente per il tuo lavoro?
Brown, un essere con molte teste, e più cresce più teste gli spuntano… Semplicemente mostruoso! Poi Ilaria Ferretti ed Elisa Gusella, con le quali sto lavorando bene.
Che idea ti sei fatta della critica e del giornalismo d’arte?
Riscontro che si tende spesso ad appiattire tutto su un’interpretazione univoca mentre -pur mantenendo ferma l’idea di base- un lavoro artistico non è un’affermazione e non bisognerebbe farlo diventare tale. Detto questo, penso che i critici possano dare tanto alla ricerca di un artista. Tiziana Conti, ad esempio, ha fornito del mio lavoro una lettura così acuta che da lì in poi molto è passato attraverso un paio di sue considerazioni.
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