Il 3 settembre 2025 è morta a New York, a 98 anni, Rosalyn Drexler, una delle figure più eccentriche e affascinanti dell’arte americana del secondo Novecento. Pittrice legata alla Pop art, ma anche romanziera, drammaturga premiata con l’Obie e sceneggiatrice da Emmy, Drexler è stata perfino una wrestler professionista, portando sul ring il nome d’arte di Rosa Carlo, la “Mexican Spitfire”. Un percorso ai margini e al tempo stesso al centro della cultura visiva del suo tempo.
Nata Rosalyn Bronznick nel Bronx nel 1926, Drexler respirò fin da bambina il clima dei vaudeville e delle immagini popolari. Dopo un breve passaggio all’Hunter College e il matrimonio con il pittore Sherman Drexler, iniziò a esporre assemblaggi realizzati con materiali trovati, per poi approdare alla pittura e alla scrittura. Negli anni Sessanta elaborò un linguaggio pop molto personale, densamente simbolico ed elegante, lavorando su fotografie e immagini ad alto tasso mediatico, che componeva e isolava su luminose campiture di colore acido.
In quegli anni, le sue opere dialogavano con quelle di Andy Warhol, Roy Lichtenstein e James Rosenquist, ma con una differenza sostanziale: Drexler guardava alle figure femminili e alle dinamiche di violenza rappresentate dai media, sottolineandone la brutalità e l’ambiguità. Attrici di Hollywood – come la Marilyn Pursued by Death, del 1963 –, scene di lotta, baci rubati e gangster in abito nero diventavano icone sospese, ritagliate da un immaginario che lei reinterpretava in chiave critica.
La carriera di Drexler prese avvio con sculture in materiali di recupero, realizzate a Berkeley negli anni Cinquanta, in dialogo con l’energia informale della Beat Generation. Artisti come David Smith e Franz Kline ne riconobbero subito la forza, incoraggiandola a continuare nonostante il pregiudizio verso le donne scultrici. Trasferitasi a New York, partecipò alle avanguardie riunite intorno alla Reuben Gallery e ai primi Happenings, prima di orientarsi definitivamente verso la pittura pop, cercando nelle riviste e nei poster le immagini da trasformare in tele. Firmò con la Kornblee Gallery e, tra il 1964 e il 1966, espose opere che scandalizzarono e affascinarono, come i collage ricavati da riviste erotiche presentati alla celebre First International Girlie Exhibit accanto a Warhol e Wesselmann.
Serie come Love and Violence misero in scena rapporti abusivi, dinamiche di potere e desiderio, anticipando letture femministe che Drexler, pur senza rivendicare un intento politico, incarnava di fatto. Con tele come I Won’t Hurt You (1964) o Rape (1962) affrontò la rappresentazione della violenza di genere, mentre opere come Is It True What They Say About Dixie? (1966) commentavano con ironia feroce il razzismo americano. Altri cicli, come Men and Machines, interrogavano il mito tecnologico della Guerra Fredda, caricandolo di connotazioni sessuali e di critica sociale.
Dopo un primo exploit, tuttavia, il suo lavoro rimase in ombra: era ancora l’epoca del dominio dell’Espressionismo astratto e del Minimalismo e la Pop art stessa si trovava in una fase iniziale. «I miei quadri erano un segreto», ricordava in un’intervista del 2016. Molto più tardi, con la rivalutazione della Pop al femminile, la sua opera venne finalmente riconosciuta: mostre come The World Goes Pop alla Tate Modern (2015) e la retrospettiva al Rose Art Museum di Brandeis (2016) hanno contribuito a restituirle il posto che le spettava. Oggi le sue tele sono entrate nelle collezioni di musei come MoMA, Whitney Museum e Buffalo AKG.
Negli ultimi anni, Drexler aveva accolto con sorpresa la tardiva consacrazione: «È un successo, ma quando arriva così tardi si sente la mancanza delle persone con cui avresti voluto condividerlo», aveva dichiarato.
A latere della pittura, però, ci fu la lotta libera. Negli anni Cinquanta, Drexler calcò i ring americani come Rosa Carlo, un personaggio esotico inventato per il circuito del wrestling femminile. Viaggiò tra il Sud e la Florida, combattendo perfino in hangar e cimiteri ma tornò presto a New York, disgustata dal razzismo incontrato negli Stati americani durante le tournée. Come wrestler fu trasformata in icona da Warhol, che la ritrasse in una serie di serigrafie nei panni di Rosa Carlo. L’esperienza, odiata ma indimenticabile, divenne materiale per il suo romanzo To Smithereens, pubblicato nel 1972, da cui fu tratto il film cult del 1980 Below the Belt.
La scrittura accompagnò tutta la sua carriera: dieci pièce teatrali, nove romanzi, tra cui la novelization del film Rocky (firmata con lo pseudonimo Julia Sorel), e sceneggiature televisive premiate. Le sue storie, surreali e autobiografiche, raccontavano di cani parlanti, amori eccentrici, artiste e lottatrici.
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