All’apice del connubio tra progresso e distruzione, il Novecento ha dato vita ad una florida tradizione di utopie negative, in cui la tecnologia assume il controllo totale di individui disumanizzati.
Tra gli apocalittici si annovera anche Paul Virilio, celebre filosofo ed urbanista francese, che in Città panico e ne L’incidente del futuro (Raffaello Cortina Editore) descrive le evoluzioni del “villaggio globale”: una geremiade ontologico-urbanistica che affronta i paradossi del mondo contemporaneo. Occorre percorrere quelle sue frasi icastiche, intuitive e stringenti: soffocanti onomatopee metaforiche di un “panico” che dilaga nel mondo divenuto una grande città, per subire tutto il fascino e l’angoscia del docente del Collége de Philosophie esperto in nuove tecnologie.
La rivoluzione dei trasporti e la guerra al reale intrapresa dalle nuove “armi di comunicazione di massa”, sostiene Virilio, hanno trasformato lo spazio “reale” (fisico) in tempo “reale” (metafisico), innescando reazioni a catena devastanti, come la derealizzazione del mondo e la diffusione di un panico che diventa la tonalità emotiva del nostro vivere quotidiano.
Un paradosso, quello della perdita di realtà causata dalla sua stessa moltiplicazione, che pone al centro della modernità l’immagine, la cui riproducibilità tecnica ottenebra la nostra sensibilità (Paul Valery) e trasforma il mondo in un grande museo degli orrori (Karl Krauss).
Nell’era dell’homo videns, la realtà del mondo diviene una questione eminentemente percettiva, estetica. Quale arte è dunque alla sua altezza? Un’arte delle immagini “apocalittiche”, come lo stesso Virilio
L’industrializzazione della cultura, e la conseguente mercificazione dell’immagine, si propone come forza omologante rispetto alle “visioni del mondo”, rafforzando ciò che il filosofo francese chiama “individualismo di massa”. Intanto, le nostre esigenze di spostamento veloce ci trasformano in sostenitori di un grande progetto urbanistico anonimo, che esalta le vie di comunicazione (non-luogo per eccellenza) a discapito di ogni altro principio e fine della città. Virilio annuncia l’avvento di un tipo antropologico, “che offre ingenuamente i mezzi per mettere fin al mondo… pur essendo intimamente persuaso di portare il Progresso”.
Un progresso in cerca della propria immagine, poiché la foto della pecora Dolly non rappresenta adeguatamente la vertigine scientifica della clonazione, né l’amichevole forma di un i-mac (meno decisivo della “fontana” di Marcel Duchamp o di una icona warholiana) possono rappresentare la svolta epocale dell’informatica. Così la bomba genetica e quella informatica restano realtà in cerca della propria rappresentazione.
Quale arte dunque darà immagini al progresso scientifico ed alla sua nuova religione? Presa dentro una divaricazione senza fine, l’arte sembra intenta a fornire un’iconografia alla nuova religione, riproponendo l’antica funzione pedagogico-propagandistica presso un volgo tornato analfabeta di fronte al complesso linguaggio della scienza. Su tutt’altro versante, dovrebbe però, secondo Virilio, costituire un bastione di difesa per l’uomo, proteggendolo come può da una tecno-mutazione eccessiva. Con la fine delle ideologie l’arte è restituita alla propria libertà, al proprio “abbandono”, che può farla
In effetti, come ripetere oggi l’en plain air senza passare per l’en plain écran? Quale Pasto frugale o Zattera della Medusa potrà farci sentire il dolore senza ridurlo ad effetto speciale? Lasciandolo essere ciò che è: un unicum che si dispiega nel quadro con molteplici dimensioni sensibili, troppo sensibili? Come l’arte resisterà allo tsunami dell’informazione, al suo flusso perentorio che viaggia in uno spazio tempo derealizzato, iperveloce, travolgente e superficiale? E’ allora possibile pensare un’ecologia, una politica che non siano solo una economia o una f
Nella post-modernità, connotata da un meticciato culturale nutrito da quei “socioincrociatori” che sono gli “stranieri”, estranei al mondo mediaticamente modificato, l’arte diventa qualcosa di indefinito, moltiplicato e frantumato; a volte dematerializzato e concettualizzato dispositivo energetico, spesso causa della frantumazione dei discorsi e delle immagini del mondo esteticamente corrette. Una frantumazione anche violenta che Virilio associa al terrorismo in quanto evento catastrofico in grado di destabilizzare la realtà mediatica, omologata e priva di autentica creazione. E’ la natura salvifica dell’evento, la sua ontologia della creazione come spalancamento di uno spazio e di un tempo irreale ma non virtuale, ciò che il filosofo francese pone in questione. In quanto luogo del possibile, recupero di una specifica esperienza del mondo, l’arte saprà attuare una politica di protezione dall’omologazione del mondo dei media?
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