Categorie: Personaggi

Il bello di avere vent’anni

di - 14 Giugno 2016
Dal cortile di Palazzo Marigliano, salendo una scalinata a doppia rampa, si arriva al giardino del Riot Studio. Il sole è calato ma la temperatura esterna è gradevole e le persone parlano a mezza voce, divise in gruppetti sparsi tra le ombre che una tenue luce artificiale crea in questo inaspettato hortus conclusus, compreso tra residuali elementi architettonici di gusto Barocco. Entro nella sala, le casse propagano un sottofondo di suoni ma, a parte me, non c’è nessun altro ad ascoltarli. Subito mi accorgo che qualcuno ha dimenticato le sue cose ma gli oggetti, lasciati soli, si sono messi al posto giusto, hanno trovato un loro ordine che li pone in relazione. Decine di libri si contendono ogni angolo del grande tavolo di legno chiaro al centro della stanza, diversi personaggi, probabilmente fuggiti dalle pagine di un fumetto, si agitano sul tessuto di alcune magliette che frusciano sulle grucce di un carrello guardaroba. Prima di andarsene, questa persona un po’ distratta ha usato le pareti nere come se fossero una lavagna, tracciando un’estensione di continuità tra la geometria dell’ambiente e il movimento del vissuto.

«Marco Raparelli vede i salti mortali del mondo e porta questa follia nel paradosso con le sue acrobazie visive, con un approccio che è quello del viaggiatore», spiega Umberto Di Marino parlando velocemente, mentre annoda tutti i momenti che hanno intessuto la trama degli ultimi vent’anni, vissuti una seconda volta e mezzo per “Ten more Ten”, il progetto espositivo pensato per celebrare il doppio decennale di attività della sua galleria, tra la prima fondazione a Giugliano e il successivo spostamento a Napoli. In questo ventennio a ridosso di un secolo breve e di uno che inizia a sembrare lunghissimo, la Galleria ha avuto il tempo di impostare la rotta, aggiustando il tiro curatoriale, sistemando i parametri visivi, esplorando alcuni termini cruciali, dal post colonialismo al riconoscimento dell’altro da sé, dalla narrazione dell’archivio all’interferenza tra i codici. «Per “Books&Screening”, a cura di Marianna Agliottone, il penultimo appuntamento di questo progetto, abbiamo scelto il Riot Studio perché è uno spazio di condivisione e sperimentazione artistica, un luogo di comunicazione immediata, in cui gli ambiti si fondono. Per questi motivi mi sembra particolarmente adatto al linguaggio di Raparelli. E poi ci sono legato anche sentimentalmente, ci venivo anni fa ad ascoltare i concerti di musica alternativa». Per Marco Raparelli, la favola del quotidiano è una scenografia ambientale in cui il disegno può errare liberamente, percorrendo marciapiedi e gallerie d’arte, ricalcando i segnali stradali e la prossemica antropica. I segni emergono come fumetti dai gesti tipici di chi si guarda allo specchio o di chi visita una mostra, dalle superfici lisce e spigolose delle architetture, per cui risulta difficile capire dove finisce l’opera e inizia lo spazio. Così, “Books&Screening” nega la sua esistenza come mostra, se non nel suo significato di ostensione, avendo tutto l’aspetto di un diario permeabile alla casualità, in cui il limite tra rappresentazione e reale è un filo di inchiostro che svanisce.

«Tutti i “Ten more ten” sono progetti che sviluppo insieme agli artisti con i quali ho lavorato e lavoro ancora, e nascono da un preciso pensiero di narrazione, dall’idea di cercare la simbiosi migliore tra gli spazi della galleria, quelli della città e la storia del mio percorso di lavoro e di vita», per Umberto Di Marino non c’è soluzione di continuità, tutti gli elementi fanno parte di un’unità in costruzione. Quando parla delle decine di operazioni espositive progettate in questi anni e delle future, della sua vita pubblica e privata, del suo rapporto con la città, con le istituzioni e con il sistema dell’arte, il suo discorso fluisce incontrollabile e coinvolgente, con snodi e continui cambi di direzione.

«Questo discorso di lettura dei luoghi è difficile da fare a Napoli, il cui centro è fortemente caratterizzato e stratificato, pieno di segni unici. Contestualizzare a Napoli è difficile senza cadere nel folclore. Per esempio, il “Ten more ten” di Alberto Di Fabio a Castel Sant’Elmo è nato in maniera naturale, chiudendo un cerchio iniziato due anni fa con la mostra “Galassie sul Castello”. Sant’Elmo è il posto migliore per far entrare in consonanza l’arte, la natura e la psiche, visto che, nei suoi lavori, Di Fabio ritrae la bellezza interiore dei paesaggi del microcosmo e del macrocosmo. Poi, abbiamo pensato a un wall drawing per lasciare un segno non effimero e per seguire coerentemente una parte della sua produzione, con una tecnica usata anche nel caso dell’operazione a palazzo Collicola a Spoleto nel 2012». Il luogo non è un’entità astraente e deve essere interpretato volta per volta, infatti, «Per Cuba Casinò, il “Ten more ten” di Eugenio Tibaldi, abbiamo forzato la galleria, ribaltandola, facendola diventare un luogo di divertimento, una sala da poker. Cuba Casinò venne presentato al Centro Wilfredo Lam, in occasione della dodicesima Biennale de L’Avana ma fu censurato e proposto con il titolo Informal Poker Room. A Napoli è stato un momento di incontro. Le persone che giocavano a carte erano collezionisti, artisti, curatori, giornalisti, galleristi, tutti riuniti per questa serata. Il tavolo al quale erano seduti, era una parte installativa della mostra del 2009 di Simon Fujiwara, curata da Latitudes, le sedie sono di Ulla Von Brandenburg, portate in occasione di una collettiva del 2010, “The Horizon line is here” a cura di Lorenzo Bruni, la lampada l’ho presa dello studio di casa mia. C’è qualcosa di politico in questo, noi volevamo dimostrare che l’arte può essere divertimento e, allo stesso tempo, non esserlo».

Un equilibrio instabile che tende a sfumare, «per operazioni del genere devi avere le giuste motivazioni, il divertimento, che pure è necessario, dev’essere sfaccettato, almeno in una galleria d’arte. Per il divertimento puro ci sono altri luoghi più adatti. Mi dispiace quando le persone confondono le mostre con appuntamenti commerciali. In galleria si devono ricreare le condizioni per la produzione di un’esperienza e non si deve avere paura di osare, di andare incontro a rischi, crisi, fallimenti, perché questo è il senso dell’arte contemporanea. Anzi, direi che l’arte non può fallire, non può sbagliare, perché riprende il fallimento e lo trasforma. L’unico fallimento è quello dell’ideologia che crea le illusioni e divisioni. L’arte non è schierata ma ama l’umanità, in questo sono d’accordo con quanto sostiene Jota Castro, con il quale lavoro dal 2006».

Ma per riuscire a sopravvivere in un’economia stagnante bisogna aprire nuove strade, anche attraverso metodi tradizionali, come la cara, vecchia intuizione, «che molte volte mi ha dato ragione, come quando per il “Ten more ten” di Francesco Jodice, oltre alla mostra in galleria, decidemmo di organizzare una proiezione nei capannoni industriali della Bunker Art Division di Giuseppe Buonanno, uno che ha sempre sostenuto gli artisti, aiutandoli a costruire le loro opere e risolvendo problemi strutturali di ogni tipo. Quei luoghi hanno una simbologia fortissima, espressione di un’estetica contemporanea, e si accordano con l’idea di Jodice, che ha sempre parlato delle periferie del mondo e della follia del sociale, di ciò che esiste al di fuori del circuito immaginario. Sempre l’intuizione mi ha guidato nel “Ten more ten” più complesso, quello di Gian Marco Montesano allo shop di Ernesto Esposito, designer di scarpe e collezionista. Montesano è un artista malinconico e ironico, lavora sulla stanchezza storica, mentre Esposito, nelle sue creazioni, tende a essere ludico, colorato. Ma se il gusto può essere diverso, esiste comunque un linguaggio comune. L’opera in esposizione, una grande tela raffigurante delle gambe femminili, riusciva a legarsi al luogo mantenendo la sua coerenza ma svuotando la diversità. A Montesano, poi, sono particolarmente legato, soprattutto per le sue prese di posizione. Ricordo quando, in un’intervista pubblicata nel numero 6 di “Parallelo 42” e rilasciata a Maria Antonietta Firmani che gli chiedeva del suo ingresso nel mondo dell’arte, rispose: “volevo portare una scintilla in un mondo di rane che si gonfiano come buoi”. Per me è stato un punto di partenza».
Allora, “Ten more ten” poteva rappresentare l’occasione di fare ordine ma il pericolo insito nelle cose ferme è stato accuratamente evitato, rimettendo in gioco tutto quello che è stato fatto. «Quando lavori con artisti che si mettono in discussione, si aprono dibattiti continui, assecondando stimoli che derivano dallo scambio di conoscenze. È il caso di Vedovamazzei, il duo formato da Simeone Crispino e Stella Scala. Non si può immaginare quanto abbiamo discusso per la loro ultima mostra, anche una pianta spostata nell’angolo o al centro della sala diventava un argomento critico. Secondo me, le mostre più riuscite sono quelle di artisti che non hanno paura di mettersi in difficoltà, ci si accorge quando dietro l’esposizione c’è un confronto serio. Una mostra è una palestra, un’occasione per mettere alla prova se stessi e per conoscersi meglio attraverso il lavoro vivo. Altrimenti puoi metterti in rapporto con la museologia e fai un’operazione di storiografia. Anche questa è una strada valida, l’importante è fare una scelta e seguirla con consapevolezza».
Per l’ultima tappa di “Ten more ten”, il 24 giugno, aprirà “Onwards”, a cura di Nicoletta Daldanise, e saranno presenti tutti gli artisti che hanno attraversato la Galleria, da H.H. Lim a Hidetoshi Nagasawa, da Vettor Pisani a Runo Lagomarsino, da Luca Francesconi a Sergio Vega, tra i molti altri e oltre a quelli già citati. Un momento per riprendere fiato e ripartire con più slancio, perché: «Non c’è limite, non si deve mai pensare di essere arrivati e non è un discorso di ambizione. Direi più di desiderio di esprimere la forza del proprio pensiero. Forse è un narcisismo ma, in fondo, utile».
Mario Francesco Simeone

In alto: Marco Raparelli, Books&Screening, veduta dell’installazione al Riot Studio, 2016. Ph Agostino Rampino

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