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L’intervista/Fabio Cavallucci | Io, il Pecci e la Toscana. | Con lo Polonia sullo sfondo

di - 27 Marzo 2014

I tempi per chiudere il concorso per la nomina del direttore che doveva succedere a Marco Bazzini sono stati un po’ più lunghi del previsto, quasi un paio di mesi in più. Durante i quali si sono rimbalzati i nomi della cinquina che era uscita dalla prima selezione per progetti e curriculum con cui il museo di Prato aveva avviato la procedura per la nomina del nuovo direttore: Alberto Salvadori, Marco Pierini, Dobrila Denegri, Valerio Dehò e Fabio Cavallucci. Su quest’ultimo erano concentrate le maggiori aspettative, ma l’iter è stato più complicato anche per le bordate di Sgarbi e altri incidenti di percorso. Ora Cavallucci, che lascia la direzione del Centro per l’arte contemporanea di Varsavia Castello Ujazdowsk, racconta a Exibart il suo progetto di rilancio del museo.
La prima domanda è obbligata: quali sono i punti di forza del tuo progetto per il Pecci?
«Il primo punto è di considerare il Pecci non solo un “centro d’arte contemporanea” ma un centro delle arti contemporanee. Da decenni ormai le arti visive toccano altri ambiti della cultura, dalla musica al teatro, dalla danza al cinema. L’incontro tra le arti è forse il punto più prolifico per il futuro, quello dove potrebbero avvenire le maggiori novità, e dunque è ora che un’istituzione si indirizzi chiaramente su questa strada. Il secondo è il pensare che l’arte debba essere molto più vicina agli interessi di larghi gruppi di persone di quanto non sia ora. Sono per un’arte che tocchi i gangli scoperti della società, che parli di temi e problemi che riguardano la vita di tutti i giorni. Così come è accaduto molte volte in passato. Una cattedrale romanica, ad esempio, era il frutto della volontà di un’intera comunità. Il terzo è il fatto che per raggiungere un vero radicamento nella società occorre attivare una serie ampia di incontri con gruppi, associazioni, persone, e capire cosa il Centro debba essere per la comunità, a quali esigenze debba dare una risposta. Solo radicandosi profondamente nel territorio potrà aspirare ad essere il riferimento assolutamente internazionale.
Infine che il Centro funzioni anche da coordinamento regionale, che fornisca supporto e sevizi ad entità disperse in regione che ne richiedano l’intervento».

Sono questi i punti che pensi abbiano convinto la Commissione a nominare te piuttosto che un altro dei concorrenti? E perché?
«Questo bisognerebbe chiederlo alla commissione. Comunque mi pare un progetto allettante, a suo modo rivoluzionario, almeno rispetto ad un concetto di arte totalmente immersa nel sistema di mercato. Ma credo che abbia influito molto nella decisione anche una certa dimestichezza con il panorama artistico e istituzionale internazionale che posso in qualche grado vantare».
Oltre il tuo programma, quali sono le prime urgenze di Prato e del Pecci, alle quali tu, ma anche il CdA del museo pensi che dovete far fronte?
«Innanzitutto il completamento del nuovo edificio, opera dell’architetto Maurice Nio. Ma sul piano più generale credo occorrerà lavorare soprattutto in due direzioni: da una parte gli incontri con gli esponenti di vari gruppi e associazioni, dall’altra la ricerca di nuovi finanziamenti. Come sempre l’arte passa in secondo piano»

Hai già lavorato in Toscana, la prima volta quasi venti anni fa con Tuscia Electa e, più recentemente, con la Biennale di Carrara. Che cosa è cambiato oggi in questo territorio soprattutto rispetto alla tua prima esperienza?
«È ancora un po’ presto per dirlo. Visto da fuori è chiaro che qualcosa dell’energia che avevo trovato nella seconda metà degli anni Novanta sembra andato perduto. Erano i tempi in cui insieme a Tuscia Electa iniziava Arte all’Arte, ma anche Dopopaesaggio, la Fondazione Teseco a Pisa e tante altre iniziative. Era un pullulare di iniziative, cresciute sulle basi create da Giuliano Gori a Villa Celle e da Luciano Pistoi al Castello della Volpaia. Sembrava quasi che la Toscana potesse diventare (paradossalmente, data la forza della presenza artistica del passato) la prima regione in Italia per il contemporaneo. Poi, non saprei dire per quale ragione, tutto si è un po’ sfilacciato, affievolito, spento. Credo però che molta di quell’energia sia ancora presente e che si tratta solo di riattivarla».
Che cosa hai imparato dall’esperienza in Polonia?
«Come da ogni esperienza importante ho imparato molto. Magari se avrai voglia potremo in futuro parlarne più distesamente. Ma la cosa principale che ho imparato  – sembra banale – è la profondità. Voglio dire che noi italiani siamo molto spesso superficiali, andiamo alle inaugurazioni per incontrare gente, non per vedere le mostre; seguiamo conferenze e poi scappiamo, non abbiamo voglia di approfondire. Siamo un po’ come i matti di quella barzelletta in cui non si raccontavano più le storie, perché le sapevano a memoria e quindi le chiamavano con dei numeri. Solo che la storia, dietro a quei numeri, ormai non c’è più. Ecco in Polonia si raccontano ancora le storie. Il pubblico polacco è attento, interessato, analitico. Dopo un’opera teatrale di Warlikowski, che dura sei ore, ha ancora voglia di discutere e fare domande per più di un’ora. Ecco, ora però non scappate tutti, prometto che a Prato non mostreremo Warlikowski»

C’è qualcosa che rimpiangerai di quel Paese?
«Intanto spero di continuare a frequentarlo, visto che la mia compagna è polacca, e certo alcune collaborazioni potranno essere utili anche a Prato. Ciò che potrei rimpiangere è proprio questo pubblico, questa attenzione. Ma farò di tutto per ché anche il pubblico italiano possa affrontare le proposte in questo stesso modo».
Il tuo arrivo a Prato è stato preceduto da molti consensi, ma anche da qualche critica molto dura arrivata dalla Polonia e rilanciata in Italia. Come rispondi alle accuse che sono circolate?
«La Polonia è un luogo dove tutto è molto più crudo e diretto di qui. Ogni rapporto è un corpo a corpo, molto più viscerale di quanto non sia da noi. Il sindacato polacco possiede delle strategie abilissime. Ecco quelle lettere sono il frutto di strategie e di un modo molto più viscerale di affrontare le cose di quanto non abbiamo noi. Quando incontrai il ministro mi disse: “Quando ricevo lettere dai sindacati sono contento, perché vuol dire che il direttore lavora bene”».

Oggi il problema numero uno dei musei sono i finanziamenti. E sempre più spesso i musei diventano location per programmi di intrattenimento di varia natura, ma il Pecci non possiede l’appeal della bella architettura contemporanea e Prato non è Roma o Milano. Come pensi di affrontare la scarsità di finanziamenti?
«Non credo che il Pecci non possegga appeal per attirare finanziamenti. È il museo di arte contemporanea della Toscana, per giunta con il raddoppio sarà anche la “bella architettura contemporanea”. E soprattutto la Toscana è sempre un grande attrattore».
Conoscendoti, penso che condividi l’idea che Hou Hanru ha espresso in occasione del suo insediamento al MAXXI, quando ha sottolineato che il museo deve essere un luogo di ricerca. Nello specifico quale è la tua visione?
«Certo che la condivido. Ovviamente non penso alla ricerca nell’ambito della storia dell’arte, che pure è importante. Credo che un museo, o un centro come il Pecci, abbiano prima di tutto il compito di investigare attraverso l’arte dove sta andando il mondo. Stiamo attraversando cambiamenti epocali. L’arte è sempre stata l’ambito in cui è stato possibile riconosce prima i segni di dove va il mondo. Lo scorso anno, per esempio, abbiamo realizzato a Varsavia una mostra di arte ucraina. Ecco, erano già presenti i segnali di quei conflitti che poi sono sfociati nella rivoluzione e nelle note vicende di questi giorni. Ebbene credo che un’istituzione artistica, oggi, abbia questo compito primario: di cercare di  rispondere alle domande sul nostro futuro. E l’arte è uno strumento fantastico per questo».

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