Categorie: Personaggi

L’intervista/FAM | Fabio Mauri e la coscienza dell’arte

di - 15 Giugno 2012
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
ed io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Bertold Brecht
Sta forse in questi pochi versi attribuiti a Brecht, ma probabilmente scritti da un pastore luterano, la chiave di lettura della mostra “The End”, che si apre lunedì a Palazzo Reale di Milano. Non una retrospettiva, come ci racconta la curatrice Francesca Alfano Miglietti, ma un percorso tra opere che vanno dalla fine degli anni Quaranta agli ultimi lavori del 2008 e che non divide per sezioni, stanze o temi, ma crea un dialogo tra installazioni, proiezioni e una parte importantissima e numerosa di opere su carta, realizzate da Fabio Mauri (Roma 1926-2009), in tutto l’arco della sua vita. Un catalogo corposo edito da Skira, che arriva a distanza di poco tempo dal volume pubblicato da Bollati Boringhieri “Fabio Mauri: Ideologia e Memoria”, accompagnerà la mostra.
Una mostra che si pone come «una coscienza visiva che si dipana sulla cultura europea», spiega Alfano Miglietti, intorno a un artista che ha fiancheggiato diverse correnti, dalla scuola romana alla Transavanguardia, ma che non ha mai fatto parte in toto di correnti o movimenti, ricercando, con una lucidissima ossessione, di  gettare uno sguardo sull’Europa e sui suoi valori, nonostante il male che si è prodotto in questa parte di mondo nel Novecento. «La grandiosità di Mauri è stata anche di trasmettere la storia recente, con i suoi orrori, utilizzando un linguaggio discreto, perché non c’è bisogno di fare rumore, basta leggere i titoli delle opere per provare qualche brivido», racconta la curatrice.
Ricordo infatti che tu, in diverse occasioni, parlasti di Mauri come di un’artista-spina nel fianco della coscienza storica d’Europa…
«L’arte è da sempre una coscienza etica, che non esclude tensioni e diversità, nonostante ancora non si capisca in base a quali criteri si parli di diversità rispetto a un atteggiamento “normale” che molto spesso è più inquietante e feroce di qualsiasi “stranezza”. Si discute tanto di arte Relazionale o Public Art: Fabio Mauri ha sempre fatto Arte Relazionale e questa è Public Art, proprio perché si tratta di una storia che appartiene al mondo intero. Altro punto nodale di questa esposizione è il suo essere fortemente contro l’identità: Fabio Mauri non era ebreo ma la presenza ebraica in “The End” è potentissima. Questo periodo ci insegna che è molto importante difendere i diritti di chiunque non tanto per l’appartenenza a una categoria o meno, ma perché tutte vanno tutelate».
Il “The End” del titolo è la fine, ma è anche l’inizio se si pensa alla carriera di Mauri, che aveva cominciato proprio con la serie degli Schermi, negli anni Cinquanta. È stato pensato in quest’ottica?
«Il “The End” prima di tutto è la fine di un film, ma non è apocalittica. Fabio Mauri ripropone alcune cose proprio perché non abbiano fine. E questa attenzione al cinema era così forte in lui perché aveva perfettamente capito che i mezzi di comunicazione avrebbero completamente stravolto la vita degli individui. Gli Schermi sono sia l’azzeramento sia il film che ricomincia, che non finisce per sempre, ma che riprende esattamente come la storia, che è ciclica».
Un percorso, quello di Mauri, che oggi più che mai appare fortemente contemporaneo, vero?
«La memoria di Mauri è un presagio sul futuro e questo è un tempo le cui  condizioni e caratteristiche potrebbero dar vita a un film simile a quello da lui raccontato. Non è un caso che Mauri sia molto citato dai giovani artisti per la sua metodologia etica, per la capacità di mettere le mani in pasta con qualcosa che non è piacevole, che non è un gioco, e che sempre di più diventerà un tabù. Fabio Mauri lascia un patrimonio di lavori anche perché non è stato completamente capito: quando si pone l’attenzione sui nervi scoperti della collettività, il primo gesto che si fa è quello di rimuovere».
Recentemente raccontavi che si tratta di una mostra “con” Fabio Mauri e non “di” Fabio Mauri. Cosa intendi? Avete iniziato a prepararla insieme?
«Prima di tutto perché siamo partiti dal luogo dove la mostra sarebbe stata allestita, esattamente come faceva sempre l’artista: lo spazio per Mauri era importantissimo. Prima di iniziare un’esposizione verificava sempre la disposizione delle opere con un plastico e le miniature dei pezzi da installare. Ogni posto portava con sé dei lavori e Palazzo Reale ha portato con sé una serie di opere piuttosto che altre, che sarebbero state diverse alla Besana o alla Fabbrica del Vapore – altri due spazi milanesi dove sarebbe dovuta svolgersi la mostra, prima di trovare la sua collocazione a Palazzo Reale, n.d.r. – e poi anche perché l’ingresso a ogni sala è accompagnata da un testo dell’artista. Non vi sono state sovrascritture, tutto è stato tenuto sul registro di un’equazione, come nelle fascinazioni di Mauri, che amava la geometria e la filosofia, per il loro essere pratiche che sembrano ricreare un’evidenza, ma che in realtà sono pure astrazioni».
Ci racconti un po’ come si snoderà la mostra? I suoi punti caldi?
«Questa è una mostra di opere, e quello che sarà più lontano dal concetto di “piacere visivo” sarà proprio questa esposizione: nessuno potrà dire “non mi piace”, perché proprio lontana dal senso del piacere canonico. L’arte è fatta dagli artisti e ai veri artisti non interessa “piacere”. Come dicevo, vi saranno moltissime opere su carta che vanno dall’inizio della carriera di Mauri fino al 2008. In qualche modo si tratta di modalità di dialogo, un rifugio dalla sua solitudine. Sono dei discorsi ideali con Picasso, Cézanne, Matisse, Klee o con alcuni compagni di viaggio, come Tano Festa e Mario Schifano. Vi sono vari cicli tra i disegni; si passa dai Cristi agli Scorticati, spesso vi sono interferenze  di scrittura e muri che ritornano, che non solo solo di valigie o del pianto ma che rappresentano impedimenti veri e propri, ostacoli. In molte carte vi sono numeri, fotogrammi, tantissimi animali e forme zoomorfe, frammenti preparatori di Ebrea, che in quest’occasione viene riproposta come alla Biennale del 1993, con molto spazio. Vi sarà poi un piccolo museo da campo di concentramento, le poltrone di pelle che portano nome e cognome, la serie dei saponi e inquietanti decorazioni dall’estetica piacevole che però riconducono al nazismo. Molti disegni inoltre hanno nel loro Dna uno sguardo cinematografico che riporta alle immagini del fascismo, alla “voce del padrone”, all’istituto Luce. E poi Intellettuale, un dialogo tra lui e Pasolini, alcuni Ricami e molti “The End”. Non ci saranno riproposizioni di performance live per una scelta critica: le performance si fanno con gli artisti vivi, se si possono riprodurre diventano teatro, anche se non c’è una verità assoluta su questo. Tutte le azioni realizzate da Mauri saranno comunque riproposte in video».
Mauri era stato indicato, a proposito di Tano Festa e Schifano e degli Schermi, come un esponente della Pop italiana…
«La grande genialità di Mauri è che capisce che la Pop, per un artista europeo, è l’ideologia: lui la utilizza come un frammento, così come Festa usava Michelangelo. Non è un caso che Kentridge e Mauri quest’anno siano stati consacrati a Kassel, proprio perché è davvero il tempo di ripensare alla storia e all’arte, di ricreare un’attenta partecipazione dello spettatore sui temi scottanti del nostro passato, per ampliare di conseguenza una visione libera del futuro».

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