Categorie: Personaggi

L’intervista/ Pietroiusti e Rosefeldt

di e - 10 Marzo 2019
Con “Manifesto”, una mostra sui grandi manifesti artistici del Novecento inaugurata pochi giorni fa, parte la nuova stagione del Palazzo delle Esposizioni. A presentare l’autore della mostra e filmmaker tedesco Julian Rosefeldt è l’artista romano Cesare Pietroiusti in veste di Presidente di Palaexpo. Una mostra che è l’occasione di un nuovo allestimento che ridisegna lo spazio del museo e che vuole marcare una nuova programmazione culturale, dichiara alla stampa Pietroiusti. La mostra di Julian, che arriva in Italia per la prima volta dopo aver girato dal 2015 i musei da Melbourne a Berlino, è una videoinstallazione di tredici schermi da cui rimbombano i manifesti storici (dal Futurismo alla Pop Art) come una grande liturgia dell’arte impersonata da Cate Blanchett che eccella nel trasformismo. Entrambi legati alle avanguardie, abbiamo intervistato Rosefeldt e Pietroiusti insieme per riflettere sui cambiamenti dell’arte oggi.
Com’è nata l’idea di portare a Roma la mostra di Julian?
C.P. «La prima volta che ho incontrato Fabrizio Grifasi che è il direttore artistico del RomaEuropa Festival mi ha raccontato le cose che avevano in programma e mi ha proposto di coprodurre insieme questa mostra in uno dei padiglioni del Mattatoio. E mi ha detto che Julian sarebbe stato in residenza a Villa Massimo per un anno. Poi è passato un po’ di tempo e intanto si è creata l’opportunità di allestire al Palazzo delle Esposizioni. Ne ho parlato con gli altri al tavolo di programmazione di Palaexpo, e l’idea è piaciuta a tutti e visto il grosso investimento economico che rappresentava, abbiamo pensato che era meglio farlo al Palazzo delle Esposizioni».
Julian Rosefeldt, Manifesto, allestimento della mostra, foto di Silvia Tudini
Quant’è costato il nuovo allestimento di Palazzo delle Esposizioni?
J.R. «Io non conosco i numeri!».
C.P. «La cifra non si discosta da quelle delle mostre che si fanno abitualmente al Palazzo delle Esposizioni. Si può facilmente intuire che l’investimento è stato importante anche perché Julian ha proposto un vero e proprio ridisegno dell’architettura interna del Palazzo. E questo progetto mi è sembrato il progetto giusto, anche simbolicamente, per la prima mostra decisa dal nuovo tavolo di programmazione e del nuovo CdA di Palaexpo».
L’allestimento di Julian chiude l’ampio ambiente centrale del Palazzo. Avete voluto annullare l’architettura del museo?
C.P. «È un allestimento che fa sparire la retorica dell’architettura neoclassica, siamo in un altro luogo. La metafora è quella di una nuova visione curatoriale dell’istituzione. Ma l’allestimento gioca anche ironicamente con l’architettura, per esempio abbiamo scelto di integrare a metà le quattro colonne centrali della Rotonda che rappresentano un elemento spiazzante quanto divertente».
J.R. «Secondo me abbiamo toccato uno dei problemi di Roma dove tutti sono soffocati dal peso del passato. Il nuovo allestimento invece ci inserisce subito in uno spazio contemporaneo che potrebbe essere quello di qualsiasi galleria del mondo dell’arte globalizzata. Non è un rifiuto ma una maniera di confrontarsi con l’architettura del passato che riflette un po’ lo spirito dei manifesti artistici».
Julian Rosefeldt, Manifesto, allestimento della mostra, foto di Silvia Tudini
Julian, con Manifesto hai voluto fare un tuo manifesto dei manifesti?
J.R. «Io sono solo un vaso che trasporta queste energie, non sono uno di loro, non mi permetterei di aggiungermi a questa lista di artisti famosissimi. Ho solo il privilegio di riattivare questi testi di Marinetti, Breton, etc., che crediamo tutti di conoscere ma rileggendoli sono stato stupefatto dalla loro energia, dalla loro poesia e dalla loro attualità. Se provi a rileggerli senza pensare all’opera visuale di questi artisti, diventano testi completamente diversi, diventano pura poesia, puro pensiero».
Per te Cesare cosa rappresenta cominciare la nuova stagione del Palazzo delle Esposizioni con una mostra sui manifesti artistici?
C.P. «Voglio che questa mostra sia un segno forte ma godibile, denso di significati e foriero soprattutto di potenzialità».
Si può dire che già dalla Pop Art, sessant’anni fa, si disperde l’uso del manifesto artistico. Per quel periodo la protagonista del film di Julian, Cate Blanchet, cita solo il testo di Oldenburg. Che fine ha fatto la tendenza del manifesto artistico oggi?
J.R. «Secondo me oggi c’è un rinascimento del manifesto e penso che abbia a che fare con il populismo che è, in un certo senso, l’antimanifesto, arrabbiato ma stupido. Qui riappaiono e rivivono testi di autori arrabbiati ma scritti con intelligenza».
Quali testi oggi potrebbero essere i nuovi manifesti?
J.R. «Penso all’Accellerism o al testo francese Indignez-vous [di Stéphane Hessel] che non è un manifesto ma un testo molto interessante, ci vedo la stessa energia».
C.P. «Anche i testi di Badiou, i due Manifesti per la filosofia o L’idea di comunismo scritto con Zizek, hanno questa forza di denuncia ma anche una irriducibile speranza nell’utopia».
Julian Rosefeldt, Manifesto, allestimento della mostra, foto di Silvia Tudini
Ma nessuno di questi testi sfocia più in un movimento artistico oggi. Come mai?
J.R. «Ci sono ma in altre forme. Primo punto, negli ultimi cento anni il mondo dell’arte si è centuplicato, è diventato una scena incredibilmente grande, mondiale. Secondo punto, ci sono tanti mezzi di comunicazione oggi per dire quello che vuoi dire se sei un artista, internet per esempio. All’epoca delle avanguardie non esistevano tutte queste possibilità. Oggi la forma pura del manifesto è scomparsa, forse si è ammorbidita ma l’arte si dichiara ancora in nuove forme. Non ha importanza se si creano o no nuovi movimenti. Inoltre c’è un terzo punto: prima erano gli artisti a scrivere i manifesti, oggi sono i commissari, i curatori che scelgono i temi come Gender, Post-Colonialismo o Intelligenza Artificiale e gli artisti seguono in massa. È la massificazione dell’arte a creare questa tendenza. Non so se è un’evoluzione positiva ma è quello che osservo».
C.P. «Oggi la presenza della discorsività dichiarativa del manifesto si è moltiplicata, così come i modi di proporre il proprio lavoro artistico attraverso un linguaggio assertivo. La nascita di un movimento, comunque, non è mai così immediata o evidente. Anche all’epoca del Futurismo o del Surrealismo, solo una volta storicizzati i movimenti diventarono riconoscibili. Quando è nata l’Arte Povera, per parlare di un movimento italiano, erano pochissimi a parlarne. È stata riconosciuta come movimento internazionale vent’anni dopo. La riconoscibilità di un movimento è successiva alla sua storicizzazione. Quello che sta succedendo oggi è molteplice perché c’è una quantità di proposte culturali attraverso internet e un’internazionalizzazione che allarga in modo smisurato la conoscenza senza necessariamente approfondire».
Raja El Fani

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