Alla ricerca del tempo di Sugimoto

di - 2 Giugno 2015
Restano ancora pochi giorni per visitare “Stop Time”, la personale che la Fondazione Fotografia Modena ha dedicato a Hiroshi Sugimoto, aperta fino al prossimo 7 giugno. La mostra, curata dal direttore della Fondazione Filippo Maggia, si presenta come un’importante occasione per ripercorre la carriera del grande maestro giapponese, un viaggio attraverso le tappe salienti della sua ricerca artistica: dalle prime sperimentazioni della serie dei Dioramas ai misteriosi orizzonti marini protagonisti dei Seascapes, dall’indagine sui Theaters americani alle immagini di “luce” dei Lighting Fields (foto di copertina) fino ai recenti lavori dedicati alle icone dell’architettura modernista.
Nato a Tokyo nel 1948, poco più che ventenne Hiroshi Sugimoto si trasferisce in America, in un primo momento a Los Angeles e in seguito a New York, città dove tutt’ora risiede e lavora. Affascinato dalle correnti minimaliste e concettuali che dominavano la scena artistica di quegli anni, Sugimoto si avvicina alla fotografia, maturando una propensione per l’uso costante del mezzo analogico e del bianco e nero, per le composizioni di volumi lineari, modulati attraverso sapienti contrasti di luce e ombra. «Le ricerche e i lavori di Sugimoto lungo questi quarant’anni di carriera – scrive Luca Molinari nel catalogo che accompagna la mostra edito da Skira – offrono l’immagine di un percorso che si è disvelato progressivamente, guidato, però, da una coerenza concettuale affilata che solo alcuni grandi artisti riescono a mettere in pratica. Ogni immagine sembra disvelarsi come un interrogativo aperto e magnetico a presupporre alcune costanti domande di fondo che animano i “dialoghi interiori” del maestro giapponese».
Centrale, nella poetica di Sugimoto è il concetto di tempo, ricondotto in una dimensione di assoluto, un tempo indiscutibile e non corrotto dalla Storia e dalla percezione umana. «Quello del tempo è un concetto astratto – racconta il fotografo – e difficile da afferrare quanto la realtà che ci circonda. Esiste il tempo letterario di proustiana memoria e quello della fisica classica nella quale ogni istante è misurato con esattezza da un orologio; vi è poi lo spazio-tempo della teoria della relatività, secondo cui il tempo varia in funzione del punto di vista di chi lo osserva, proprio come il tempo dei miti antichi». Una ricerca del tempo assoluto e originario che si manifesta negli orizzonti marini ritratti nella serie Seascapes (1980, in progress): immagini in cui acqua e aria si fondono in uno scenario primigenio, paesaggi non corrotti dall’intervento umano, destinati a rimanere in uno stato di sospensione eterno, che nella poetica di Sugimoto diventano simboli di quanto resta di immutato sulla Terra dai tempi della sua creazione.
È invece una riflessione interna al linguaggio fotografico quella che è alla base delle serie dei Dioramas (1975-2012) e dei Portraits (1994-1999), ispirate alle collezioni del Natural History Museum di New York e ai celebri ritratti di cera di Madame Tussaud. «Nella serie dei Dioramas, – precisa  Maggia – il punto di vista è quello, semplice, dell’osservatore, consapevolmente estraneo alla scena come molte volte lo è il fotografo, al di là di ciò che sta accadendo. Il diorama, ambientazione organizzata dietro a un vetro, è una fotografia già fatta, di cui Sugimoto esalta il suo voler esser vero sino a renderlo reale, specificando al contempo la sua valenza storico-scientifica». L’interesse per il mezzo fotografico spinge Sugimoto a una ricerca sulla sua espressività originaria, a un confronto diretto con l’opera del suo inventore, W.H. Fox Talbot. Nasce così la serie dei Photogenic Drawing (2008-2010), positivi che si presentano come rielaborazioni di negativi originali dello scienziato inglese. Nelle immagini dei Theaters (1975, in progress) l’artista torna a meditare sul concetto di tempo. Dal tempo assoluto e indefinito dei Seascapes, Sugimoto si concentra su un tempo dalla durata precisa, quello lunghissimo dell’esposizione fotografica che coincide con la durata della pellicola proiettata sullo schermo dei cinema-teatri americani. Il risultato si concretizza in un rettangolo bianco al centro dell’immagine, dove tutto sembra azzerato, ma all’interno del quale c’è in realtà una relazione con milioni di immagini. «Questa volta i troppi significati o l’assenza di segni riconducono ugualmente al grado zero – spiega Sugimoto – il punto zero è l’inizio. Forse è da lì che veniamo ed è il punto dove torneremo. Non è che la vita».
Conclude il percorso espositivo una selezione di lavori tratti dalla serie delle Architecture (in corso dal 1997 – nella foto in alto MoMA, Bauhaus Stairway, 2013, stampa ai sali d’argento, 149×119,5 cm, courtesy l’artista ), presentati alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia durante l’ultima edizione della Biennale Architettura, in cui il fotografo giapponese s’ispira all’architettura modernista, reinterpretando la fotografia di genere, improntata alla massima linearità e definizione, in immagini altamente evocative e dai contorni sfumati, in cui il punto di visione si moltiplica all’infinito.

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