ALL’ANIMA DELLA CAPITALE!

di - 27 Marzo 2016
Come ogni anno, l’American Academy di Roma mostra i lavori dei suoi borsisti. Lavori eterogenei per medium, materiali, intenti e discipline (arti visive, architettura, musica, design), e distribuiti nei diversi ambienti dell’Accademia, ma che nonostante tutto riescono a trovare una certa coerenza comune, assicurata dalla unica e fluida, e scaltra, regia di Ilaria Gianni.
Il frammento è il fil rouge da seguire attraverso questa, si perdoni il bisticcio di parole, deframmentazione centripeta verso una sorta di complessa ricomposizione. Ma esiste anche la chiave di lettura del gioco, che vede lo «spettatore-giocatore» muoversi su una ipotetica scacchiera oppure sul piano di un puzzle, per «interagire con le opere».
“Cinque Mostre 2016 – Across the Board: Parts of a Whole” parte già dalla facciata, dove le bandiere di The Middle Future – che in realtà compongono un libro, “pubblicato” quando vengono esposte – sono risemantizzate da alcuni artisti sotto la direzione della designer Lauren Mackler. Seguono nella galleria al piano terreno riflessioni sull’ambiguità di materiali e di oggetti, e alcune interrogazioni sulla visibilità.
Namsal Siedlecki, per esempio, ha creato un cappello di pelle di fungo o dipinto di marmo una tela, mentre Helena Hladilová ha intrecciato un quadro poverista pensando alle classiche sedie di paglia italiche. Maaike Schoorel e Jinn Bronwen Lee invece giocano con la pittura, per lasciare i loro lavori proprio sul filo sospeso tra visibile e invisibile, dove il vedere diventa più un processo immaginativo che fisico. Ma anche qui nulla di nuovissimo.Si parte già dalla facciata, dove le bandiere di The Middle Future – che in realtà compongono un libro, “pubblicato” quando vengono esposte – sono risemantizzate da alcuni artisti sotto la direzione della designer Lauren Mackler. Seguono nella galleria al piano terreno riflessioni sull’ambiguità di materiali e di oggetti, e alcune interrogazioni sulla visibilità.
Le parti che però suscitano le riflessioni più scomode e interessanti sono quelle in cui gli artisti si nutrono di Roma e la digeriscono alla loro maniera, pratica da secoli diffusa tra gli artisti stranieri di passaggio nella capitale (come ci ricorda Spolia, di David Schutter, opera meditata sui disegni degli artisti-viaggiatori che passavano a Roma nel XVII secolo, conservati all’ICG).
Alcune opere risultano più fresche e suggestive, come ad esempio la rilettura del pavimento dell’atrio, il cui motivo geometrico è stato alterato da Bryony Roberts (foto in alto) applicando forme di vinile adesivo nere e lilla: un discorso che allude alla sterminata casistica dei pavimenti romani, dai mosaici antichi ai cosmateschi, ai complessi ritmi rinascimentali e barocchi, reinterpretandoli dal punto della moderna grafica industriale.
Marc Boulos, d’altra parte, microproietta su foglia d’oro i filmati di una donna che si denuda, e tramite titoli da film muto rievoca confessioni di amore e sesso, trasfigurandoli in icone bizantine grazie al corrusco bagliore dell’oro (bizantinità richiamata anche dalla versione del volto di Cristo, stampata in 3d da John Lansdowne, e esposta nel piano seminterrato).
Storia e contemporaneo si incontrano anche al bar, quello dell’Academy, dove The Picture Club, vera e propria mostra nella mostra curata con la partecipazione di Gianni Politi, gioca a inserire nella fitta quadreria storica di ritratti (composta da disegni e oli di piccolo formato realizzati da pensionanti e ospiti lungo tutto il XX secolo) alcune opere di intrusi, ovvero borsisti contemporanei.
Scendendo nel criptoportico, e attraversando lo scalone, ancora viene affrontato il discorso del passato, della memoria, elemento che a Roma si palesa in mille forme e qui riletto (bisogna dire in modo un po’ banale) prevalentemente attraverso i linguaggi dei rilievi archeologici e architettonici. Si passa dalle sagome delle anfore romane della Academy, estetizzate da Woody Pirtle, alla pasta dalle forme studiate sulle cupole Borrominiane realizzata (e divorata avidamente!) dall’architetto Karl Daubmann; dall’ipotesi giocosa di riaprire il Porto di Ripetta, illustrata da Alexander Robinson attraverso un plastico stratificato, al progetto di Mali Annika Skotheim, che chiama artisti e visitatori a reinterpretare dal loro punto di vista particolari, frammenti direi, di un kylix (antica coppa per il vino, in ceramica, usata nell’Antica Grecia) della collezione dell’Accademia. E si finisce con l’apoteosi del frammento − decine e decine di statuette classiche  per turisti, frantumate dai visitatori e ammucchiate in una teca, quasi evocando i processi di calcinazione con cui migliaia e migliaia di statue vennero trasformate in calce e così riusate per costruire − nello spirito più pieno della storia romana.
A un primo pensiero questi percorsi potrebbero essere salutati come un positivo tentativo di applicare il contemporaneo su quella materia storica e archeologica che costituisce molta parte della città di Roma – ma che spesso, come un incantesimo, sembra tenere questa città imprigionata in un immobile passato, vanificando ogni occasione di novità. Ma poi ci accorgiamo che molti di questi artisti incorrono nello stesso errore, riprendono i cliché della città delle rovine, delle cupole delle chiese, della storia stratificata, e via dicendo, proprio come fecero altri artisti stranieri prima di loro, per secoli e secoli, non riuscendo a vedere, e a esprimere, la vera anima pulsante, viva e, in definitiva, contemporanea di Roma. Quale? Oggi forse proprio quella che non riesce a essere al passo con i tempi, e decadente.

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