Collezione con vista. Sul futuro

di - 2 Settembre 2015
Collezionare arte contemporanea è un’espressione filantropica? “Ni”, che diventa sì, nella misura in cui accaparrarsi i frutti di menti più o meno geniali (non tutte le ciambelle riescono col buco) includa una disponibilità alla condivisione. A ciò sono legate due condizioni: che l’arte non rappresenti solo un passatempo per ricchi, e la si affronti in maniera easy, da adulti muniti di pecunia che però tornano un po’ come bambini patiti della loro collezione non nel suo valore nominale, ma nella singolarità di ogni suo componente.
C’è differenza perciò tra l’essere un collezionista qualsiasi ed essere Sergio Bertola, personaggio che con l’arte in generale c’entra poco (professione ristoratore), ma in quel campo si è fatto le ossa a partire dagli anni Settanta, frequentando artisti e gallerie, acquistando pezzi, rivendendone altri per acquistarne altri ancora. Per l’appunto un po’ filantropo nella scelta di condividerli (alcuni sono in mostra nel suo ristorante genovese) e un po’ bambino nella smania di continuo aggiornamento del proprio “parco” opere. Alla sua collezione è dedicata la mostra “Collezionare il futuro – 40 anni della collezione Sergio Bertola” (fino al 13 settembre), firmata da Chiara Bertola (la figlia) per Villa Croce, stesso museo di “prima uscita” per la collezione Barabino, già passata per Exibart e che i lettori più assidui sicuramente ricorderanno.

Eviteremo quindi il “trova le differenze”, ché le collezioni sono di per loro un mondo a parte e troppo legato ovviamente alla figura centrale cui ruotano intorno, ma va assolutamente sottolineato un dato comune: entrambe sono radicate nella Genova di ieri, che ha rappresentato una posizione utile al diffondersi di nuove tendenze espressivo-visive (che l’Arte Povera lì sia nata non è un caso). Mentre quella di oggi che fa? Arranca un po’ troppo, con realtà valide costrette tra disinteresse istituzionale, campanilismi senza capo né coda e un laissez faire generalizzato che non fa bene a nessuno. Semplice constatazione, non retorica del “si stava meglio quando si stava peggio”. E in questo potpourri collezionisti e collezioni sono una preziosa risorsa per il suo museo d’arte contemporanea, che riesce a mettere in mostra artisti interessanti senza smobilitare prestiti internazionali. Vale il motto “poca spesa tanta resa”.
Bertola ce lo descrive la responsabile di Villa Croce, Francesca Serrati, come un «uomo appassionato dell’arte», che «acquista quello che gli piace, e nel collezionismo mette la propria visione esterna all’arte». Personaggio originale – aggiungiamo noi – a guardarsi un po’ in giro, andando a rovistare anche tra alcuni cimeli (varie cartoline e schizzi a firma di Sol Lewitt, Joseph Beuys, Remo Salvadori e altri) testimonianza del suo rapporto di confidenza con gli artisti; corollario di una collezione qui presentata in una parzialità ben ragionata, metronomo per misurare con che velocità si è sviluppato (e continua a svilupparsi) il rapporto tra Bertola e l’arte.

È impegnativo ad esempio avere Massimo Grimaldi in collezione, a cominciare dal fatto che è uno di quegli artisti capaci di alimentare isterismi da amore e odio (e non sono poi molti in verità) con la genuinità delle sue operazioni, spesso socialmente anti-artistiche. E con le quali, gli va dato atto, riesce sempre a stimolare più d’una riflessione. Del suo Biennale di Venezia text, un testo in lettere di vinile in grigetto chiaro effetto vedo-non-vedo, colpisce l’attacco semi-ironico alla figura dell’artista e al ruolo dell’arte nella società contemporanea (comprensibile, ma Massimo alla fine non sei parte di quel “circo” anche tu?), e alcuni passaggi – in linea con la sua poetica – su “l’arte come capitalizzazione di denaro”, “condizionamento”, ma soprattutto gli “artisti concentrati sul lavoro biennaloso”, neologismo che in quel contesto è un colpo al cuore.
Mind the gap se assieme a Grimaldi nello stesso ambiente si trova Pietro Roccasalva. Una fotografia e un acquerello delicatissimo, due opere divise (anche cronologicamente, la prima è del 1992, il secondo del 2000), tendenzialmente collegate nel lavorare sulla struttura iconografica/iconologica dell’immagine. E un anziano seduto a tavola, intento a spezzare una pagnotta (foto), mutua nella bluastra raffigurazione (acquerello) di un Cristo benedicente alla sua ultima cena. Roccasalva è sottile e raffinato, al pari di Ettore Spalletti (must have per i collezionisti di ieri, oggi e domani) o Cesare Viel, fresco di provenienza dalla sua ultima personale alla galleria Pinksummer. Il piccolo collage monocromo dell’artista torinese richiama un punto accennato all’inizio, fondamentale per questa collezione, quel compra-vendi-ricompra riletto dalla Serrati in virtù di un «assenza di possesso verso le opere» del Bertola, formula del suo collezionismo proiettato al futuro. Che porta anche una significativa nota di colore su questa mostra: tutti gli artisti presenti sono ancora in vita, eccezion fatta per Alighiero Boetti e Rulf Julius.

Alla Bertola curatrice l’onore d’inserire un coloratissimo Self portrait di Tony Cragg tra i concettualismi di Giovanni Anselmo e Luca Vitone, la cui Polvere di via Colombo 1 vanta una provenienza che è qui valore aggiunto. “Acquisto dall’artista” recita la didascalia (la ragione? Opera “bertolianamente autoctona”, realizzata a domicilio), bypassando in toto il ruolo della galleria, riprova di un Bertola spirito libero, poco avvezzo a farsi incanalare nelle scelte del gallerista di turno, nonché calato intrinsecamente in certe istanze poetico-artistiche. Motivo per cui la sua visione del contemporaneo è espansa, e nel mezzo ci può stare anche Trisha Baga, che tra celebri videoclip di Madonna, bottiglia d’acqua di fronte al proiettore e partecipazione del passante (costretto a diventare a sua volta “elemento di disturbo”) propone un’immagine concettuale alternativa, diversamente evoluta rispetto ai vari Anselmo o Vitone, ma anche Kosuth o Paolini.
Perdersi nel riuscito accostamento tra la linearità di Daniel Buren e lo Zig Zag di Boetti non toglie attenzione finale ad un Maurizio Cattelan d’annata con Tiè, lavoro datato 1995 e acquisito due anni più tardi, in quei tempi non sospetti quando l’artista padovano sapeva essere pungente senza sbrodolarsi. Dopodiché è cambiato Cattelan, assieme a tutta l’arte contemporanea in virtù della sua contemporaneità, con Bertola che non è rimasto a guardare. E il resto è storia futura.
Andrea Rossetti

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