Dall’Atlas agli Appennini, lungo la linea 1201: intervista ad Angelo Bellobono

di - 19 Settembre 2020

Lungo la via della dorsale appenninica si svelano paesaggi e punti di vista inattesi, luoghi affascinanti che raccontano l’Italia come un territorio di incastri montuosi e di posti ancora da scoprire. Un cammino che a volte si rivela difficile, che impegna corpo e mente e che ci porta alla conoscenza del nostro io più profondo, nell’invito a superare i nostri limiti fisici e le nostre riserve mentali. Il senso del progetto Linea 1201, promosso dall’associazione Atla(s)Now, a cura di NOS Visual Arts Production e ideato come residenza itinerante che Angelo Bellobono (Nettuno, 1964) sta conducendo tra le vette dei monti che attraversano il nostro Paese è, in fondo, questo: una restituzione in pittura del suo confronto con la Natura, quella più estrema e libera, lontana dall’azione antropica e dal nostro quotidiano.

Angelo Bellobono, disegni in quota, Le Mainarde

Un lungo viaggio, quello che l’artista sta conducendo, che è iniziato lo scorso giugno in Molise, lungo i sentieri della Mainarde, continuato a fine luglio in Basilicata, a Latronico, ai piedi del Monte Alpi, per raggiungere a settembre la Valsamoggia, in Emilia-Romagna, e il Parco Nazionale del Gran Sasso, dove andrà a concludersi tra il 21 e il 27 settembre prossimi sui Monti della Laga, nel territorio di Amatrice. La tappa emiliana è stata il momento per scambiare alcune parole con Angelo Bellobono, ragionando sul senso della sua ricerca e di questo modo di approcciarsi alla pittura.

Angelo Bellobono, Linea1201, Latronico

Hai “riscoperto” l’en plein air in un’epoca in cui sempre di più si affermano pittura digitale e new media: la tua è una scelta di protesta, un modo per prendere le distanze dalle mode dell’oggi?

«Credo che oggi praticare pittura sia di per sé una scelta di protesta. Se ci pensi, nella bulimia di immagini in cui siamo immersi, questa tecnica ti costringe a rallentare la visione, a concentrati sui dettagli e su un tempo lungo, quella della processualità e della rappresentazione. Ma il mio non è un vero e proprio rifiuto della tecnologia. E se è vero che nella pratica dipingo all’aperto la mia non è una pittura en plein air in senso tradizionale. Per intenderci, non uso il cavalletto su un bel prato aspettando che cambi la luce all’orizzonte. La mia pittura nasce da uno sforzo fisico notevole, in condizioni scomode, fuori da ogni zona di comfort e dalla ricerca continua dell’equilibrio fisico per fissare l’immagine che vedo sul foglio.

Nel paesaggio che dipingo è preponderante la componente del mio corpo, dello sforzo muscolare che ho compiuto per arrivare in quel determinato punto, delle sensazioni che sto provando nell’incontro con la natura: il mio peso su una pozza di fango, un rovo che mi graffia, la roccia su cui mi sto muovendo. Camminando divento paesaggio attraverso l’esperienza del mio corpo; e in questo modo sto già facendo già della vera e propria pittura, tracciando coordinate spaziali che poi mi trovo a fermare e raccogliere sul foglio».

Capanna Moulin, interno con i lavori di Bellobono

Sembra quasi esperienza performativa, possiamo dirlo?

«La pittura è sempre un’alchimia che di fatto non esiste prima della sua stesura sulla tela: hai delle idee ma poi essa ti costringe a seguirla in posti e luoghi che non conosci e non pensavi di andare. E così capita con il corpo. Vai verso situazioni che non pensavi di sentire e che invece poi provi e fissi sulla tela. In questo senso, forse, potremmo definirla performativa».

E in questa interazione, il dato naturale lascia le sue tracce sulla tela senza che tu interferisca per condizionarlo…

«L’elemento naturale entra nel mio lavoro come protagonista. Per esempio, in Monte Appennino ho dipinto mettendo a confronto e unendo la terra raccolta nelle vette più alte della dorsale appenninica, dal limite sud calabro-lucano del Pollino/Dolcedorme fino all’estremo nord del Monte Maggiorasca in Liguria, salendo le principali montagne di ogni regione italiana. Il mio intento era quello di riconsiderare l’Appenino per tutta la sua interezza e lunghezza. Una colonna vertebrale artritica, fisicamente non collegata, ma che ricongiunta diventa la catena montuosa mediterranea per eccellenza».

Angelo Bellobono dipinge sul Monte Marrone, ph. Stefano Ardito

L’esperienza che ha dato vita a “Monte Appennino” è raccontata nei dettagli nel libro che l’artista ha presentato lo scorso 5 settembre al Rifugio Bargentana di Lingonchio, in provincia di Reggio Emilia, edito da Danilo Montanari con il supporto della Collezione Maramotti, che raccoglie le impressioni visive che Bellobono ha vissuto nei suoi viaggi attraverso l’Italia, in una testimonianza suggestiva e preziosa che, allo stesso modo, è pittorica e narrativa. Ed è proprio citando le sue parole nel testo che concludo questo dialogo, riportando una riflessione sul senso del paesaggio che incontra l’attualità dei nostri tempi:

«Noi italiani siamo abitanti di un Mediterraneo interiore e lo navighiamo con la lunga nave degli Appennini. La straordinaria bellezza dell’Italia, il suo clima, il paesaggio, hanno sempre attratto conquistatori, così come siamo stati invasi da tutte le culture del Mediterraneo. Siamo il risultato di una varietà di popoli e abbiamo acquisito geneticamente civiltà diverse. Nell’Appennino tutto questo c’è».

Le Mainarde

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