Il MAXXI parte per l’Oriente

di - 17 Dicembre 2014
Dopo la parentesi retro-fashion, il MAXXI indirizza il suo programma prossimo venturo verso una maggiore apertura al mondo, e riscopre in sé una vocazione a avamposto di mediazione culturale tra Europa e Mediterraneo, e Vicino Oriente. La mostra “Unedited History. Iran 1960-2014”, aperta pochi giorni fa (fino al 29 marzo), è la prima di una trilogia (almeno così sembrerebbe) che vedrà protagonista la Turchia nel 2015 e il Libano l’anno seguente (in realtà si guarda anche all’Oriente più lontano, considerando la prossima mostra The Future is Now sulla videoarte coreana, o la imminente monografica sull’artista cinese Huang Yong Ping).
La mostra capita in un momento opportuno, in cui l’Iran è al centro dello scacchiere politico internazionale, schiacciato tra le inquietanti derive terroristiche degli stati vicini e il rischio di essere denuclearizzato a forza dagli occidentali. E da noi di questo paese si conosce troppo poco, se si eccettuano certe eccellenze come Abbas Kiarostami o Shirin Neshat.
La squadra di curatori – Catherine David, Odile Burluraux, Morad Montazami, Narmine Sadeg e Vali Mahluji  – dell’esposizione, importata direttamente dal Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, ha individuato tre fasi fondamentali attraverso cui è possibile scandire la storia dell’Iran dal 1960 a oggi, a ciascuna delle quali corrispondono dei fatti artistici tipici e rilevanti.

L’ordine è complesso da afferrare, non lineare, né progressivo, ma non è una colpa della mostra, quanto una peculiarità della ultima storia iraniana, in cui a un fiorire artistico e culturale corrisponde quasi sempre un periodo di reazione e involuzione politica, e non un momento di illuminato progresso della società come siamo abituati a pensare. Da qui il titolo derivato dal linguaggio cinematografico Unedited Iran, quasi si fornissero al visitatore sezioni di film girate, ma non ancora montate, né ordinate secondo una visione univoca.
Il ritorno dello Scià, e la “modernizzazione” dal 1960 al 1978, l’apertura all’Occidente, portano una stagione di crescita culturale senza precedenti, in cui fioriscono tutte le arti: il cinema, questo lo sappiamo, ed anche le arti grafiche, nelle quali l’Iran si dimostra un campione, basti pensare solo al pioniere Morteza Momayez. E se la parte inerente le ricerche pittoriche lascia un poco freddi, la sezione Archeologia del decennio finale invece affascina, recuperando dall’oblio degli archivi gemme dimenticate. Come l’attualissimo reportage fotografico di Kaveh Golestan sul quartiere delle prostitute di Teheran nei suoi ultimi anni di esistenza. Oppure i documenti sull’incredibile Festival delle Arti di Shiraz, dal 1967 al 1977, sul cui palco, di fronte alle rovine di Persepolis, artisti occidentali come Karlheinz Stockhausen o Merce Cunningham incrociarono le esperienze di performers indonesiani o senegalesi o iraniani, partecipando a una delle più affascinanti fucine multiculturali del tempo. Che in molti però videro troppo elitaria e filoccidentale.

Spazza via tutto il vento della rivoluzione del 1979, e all’autocrazia dello Scià, culturalmente illuminata ma debole di consenso, si sostituisce la restaurazione teocratica islamica guidata da Khomeini, che invece raccoglie l’approvazione di studenti e popolo, ma fa un passo indietro dal punto di vista culturale e delle libertà civili. Eppure sono gli anni in cui la grafica prende la forma di modernissimi manifesti politici, ad opera del Gruppo 57, dei fratelli Shishegaran e altri, ove il linguaggio da propaganda rivoluzionaria russo e messicano è rielaborato in modo fresco e personale dai designer iraniani. Mentre negli anni seguenti, quando l’Iran, quasi del tutto isolato internazionalmente, è coinvolto in una guerra senza quartiere contro l’Iraq di Saddam Hussein, spicca l’opera durissima del fotografo di guerra Bahman Jalali, un vero Robert Capa iraniano.
Il 1989, anno universalmente cruciale in cui termina anche la guerra Iran-Iraq, e muore Khomeini, segna l’inizio dell’ultima sezione, tra l’apertura al capitalismo e i tentativi di ricostruire una società più moderna e civile (ma in cui i diritti umani sono ancora un problema irrisolto). Gli artisti, più attenti al mercato e alle ricerche estetiche internazionali, sono anche più aggiornati e liberi, anche se forse in certi casi è l’aspetto esotico, il riferimento alla cultura iraniana, a costituire il punto di forza dell’opera anziché l’idea o la ricerca grammaticale, tutto sommato appartenente alla koinè internazionale. Per esempio, un fotografo golestaniano come Behzad Jaez ritrae frequentatori di scuole coraniche invece che prostitute, e un Arash Hanaei narra con un linguaggio grafico sintetico la convivenza di murales dedicati ai martiri rivoluzionari e pubblicità commerciali negli spazi pubblici di Teheran. Mentre in una grande installazione di Narmine Sadeg (che è anche una curatrice…niente conflitto d’interessi?), l’opera di un poeta iraniano del XII secolo, La conferenza degli uccelli di Farid al-Din Attâr, serve da spunto per una considerazione lirica sul fallimento o il successo degli itinerari degli uccelli (e, per metafora, degli uomini). Nell’opera di Chohreh Feyzdjou invece l’iranianità quasi scompare di fronte alla grandiosa e struggente umanità dell’installazione costruita dalla artista negli ultimi anni della sua vita, un enorme laboratorio e deposito pieno di lavori e documenti, testimonianza di sé.

Il contributo più creativo della macchina MAXXI, oltre l’allestimento della mostra nelle gallerie 2 e 4, sembra comunque essere il progetto di mediazione culturale My Iran a cura di Marta Moretti, del Dipartimento Educazione: ricordi personali di alcuni cittadini iraniani residenti a Roma sono stati innescati dalla visione delle opere, per poi tornare ad esse, arricchendole, sotto forma di testimonianze stampate lungo il percorso dell’esposizione. Un ricco calendario di incontri contribuirà ad arricchire l’esperienza della mostra, a cominciare dai laboratori didattici sullo Shab-e Yalda, la festa del solstizio d’inverno, il 20 e 21 dicembre.
Insomma, la mostra è interessante, ma la medaglia ha due facce. Da un lato è giusto aprirsi verso il mondo, considerando anche la natura multiculturale di Roma. Dall’altro è pur sempre una mostra importata, e ogni tanto forse sarebbe bello vedere qualcosa di autarchico, una bella mostra made in MAXXI, in cui non ci fossero stupendi abiti o la dolce vita che fu. E soprattutto contemporanea. E magari saremmo noi a portarla negli altri musei.
Mario Finazzi

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