La solita vecchia merda

di - 8 Luglio 2017
Same Old Shit è l’acronimo di SAMO, prima firma di Jean-Michel Basquiat, che inizia nella primavera del 1978 a comunicare pensieri e immagini nel tessuto urbano di New York.
La “solita vecchia merda” era nato come un gioco di parole con il compagno di fumate d’erba Al Diaz una sera dello stesso anno appunto, per identificare il loro stesso vizio, in uno di quei momenti semi-lucidi in cui ci si rende conto di essere come criceti perennemente in corsa sulla ruota di un’abitudine che, in maniera estesa, è poi la stessa vita. SAMO può, certo, variare nella forma, rimodellandosi in composizioni varie, può presentarsi sotto diverse sfumature di colore, ma la sua sostanza è immutabile. In questo modo, nell’esser semplice e diretto di questa espressione, l’uomo vi trova una certa “sicurezza”.
Sembra proprio questo il senso ultimo che trapela dalla visione della mostra romana “Jean-Michel Basquiat. New York City. Opere della Mugrabi Collection” in corso al Chiostro del Bramante in questi mesi. Un’arte che vuole ancorarsi ad una saggezza essenziale, che non ha filtri, che non vuole mediare, ma che vuole invece mostrarsi nella sua primordialità.
Jean Michel Basquiat, vista della mostra, Chiostro del Bramante
Un’arte bipolare, che si esprime alternando il doppio registro verbale e iconografico. Immagini che si richiamano di quadro in quadro come un’unica grande narrazione e parole unite in frasi che suonano come rimproveri, ammonimenti, incitazioni, che stese sulla pelle della città sussumono in se una intenzionalità visiva, quasi fossero state là da sempre. Il SoHo News, in quegli anni, iniziò a pubblicare le foto delle creazioni del giovane Basquiat e la diffusione giornalistica fece il resto, alimentando una certa mitologia dietro la misterica paternità di questi nuovi comandamenti: SAMO© come la fine della religione che ti lava il cervello, della politica inconcludente e della falsa filosofia. SAMO© per la cosiddetta avanguardia. SAMO© come espressione dell’amore spirituale. SAMO© come la fine dei confini dell’arte.
Una delle critiche potenti messe in atto dalla “fenomenologia” di Basquiat risiede proprio nell’urgenza di rimescolare le carte, pescando dal mazzo della vita reale nuova linfa per rinnovare la via della pittura. L’artista proponeva un’inversione di marcia: iniziò a mescolare il primordiale con il fumettistico, la poesia con il rebus da cruciverba, l’anatomia con il woodoo.
Basquiat and Warhol. Photo Lizzie Himmel.
La successione delle stanze della mostra si riferisce allo stesso incedere cronologico del suo lavoro: si passa di sala in sala come di anno in anno, facendo un’esperienza del percorso dell’artista, pupillo di Andy Warhol. Dall’allestimento viene subito fuori lo sforzo di Basquiat: tornare a rendere nitido e chiaro il proprio messaggio sullo spazio bidimensionale della tela.
La sua è una figurazione completamente rinnovata. Lo fa fin dalle prime prove, come testimonia la tela The Field Next to the Other Road, del 1981 che è la riproposizione, in sostanza, di un motivo agreste. Un contadino che porta la sua mucca. Dove? Probabilmente a mungere, visto che ha una mammella gonfia di latte: nonostante le figure siano completamente lacerate dal tempo, vi resta sempre il buono auspicio di un futuro allattamento. Ora certo è che l’ancoraggio con l’origine non passa dal ricordo dell’antico, ma dalla formulazione di una nuova origine. In questa prospettiva Basquiat lega il writing alla nuova pittura, non tanto nella riproposizione formale di tale tecnica, ma nel produrre una forma-senso dell’agire del writer. In effetti nato alla fine degli anni ’60 il graffitismo è da intendersi come una forma ancestrale di riappropriazione dello spazio urbano. Un’appropriazione simile a quella dell’uomo preistorico che si trovava a fronteggiare una natura ostile, da umanizzare.
Jean Michel Basquiat, Untitled, Hand Anatomy
Procedendo oltre, con opere come Untiled 1981, Three Delegates, Untiled 1982, Dinah Washington, Embittered, possiamo capire che la ricerca dell’origine non è destinata all’essere umano in generale, ma all’uomo nero. Ancor di più la fisiognomica della figurazione di Basquiat ha l’urgenza di porre in forma una certa negritudine. Proprio così, l’essere dei suoi quadri è la blackness alla ricerca di se stessa. Tutta la sua produzione, appare come uno sforzo di far risalire “la sua gente” alle proprie radici, attraverso la propria storia, i propri difetti, le proprie trasformazioni.
La pittura di Basquiat ricopre in parte anche una funzione apotropaica, quella di cacciare il maligno, di porlo in forma per renderlo meno pauroso, quasi per catarsi: spesso è un’arma rivolta verso l’uomo bianco, che a sua volta è colui che dirige il mercato dell’arte, che affolla le gallerie, come nel caso di Untiled (Yellow Tar and Feathers). Una pillola addolcita? Dentro la luminosità del giallo si disperdono silhouette di corpi rattrappiti e teschi isolati. In effetti la titolazione stessa richiama il giallo e il catrame e le piume rimandando ad una pratica razzista del sud degli Stati Uniti il cui svolgimento consisteva nell’intingere gli afroamericani nel catrame cospargendoli poi di piume, aspettandone la sicura morte. Il quadro diviso a metà sembra separare la terra dalle tenebre, e i cerchi neri sembrano alludere a morti sepolti verticalmente, al di fuori di qualsiasi pratica funeraria.
Si dice che alla morte di Basquiat vennero trovati nel suo studio una mole enorme di libri di vario genere, dall’arte all’antropologia, dalla letteratura all’anatomia. Per quest’ultimo sapere ha influito proprio l’Anatomia di Henry Gray in cui è possibile rintracciare le origini delle sue figure scheletriche in molte opere. Da una tale congerie di elementi nascono opere che si discostano dall’algida produzione seriale della pop art per inserirsi nell’era del Neoespressionismo: parole, simboli e immagini.
Marcello Francolini

Nato a Firenze nel 1984, è critico d’arte e curatore indipendente. Laurea in Storia e Critica dell’Arte Contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno. Insegna Storia dell’arte Contemporanea all’ABAN di Nola. Curatore del Progetto Primo Mercato (2017) presso la Galleria Spazio Nea di Napoli, segnalato anche su Il Manifesto e La Repubblica. Collabora attivamente con Francesca Barbi Marinetti presso la D.D’arte s.r.l. di Roma come organizzatore di eventi e come promotore culturale de Futurismo. Ha curato il progetto Linea di Contorno esponendo oltre ad una sezione di artisti emergenti, la collezione Fabio e Leo Cei di Outsider Art, a Salerno nel 2016. È presente con Progetti di curatela presso Setup Contemporary Fair di Bologna, per l’edizione 2017 (Leonarda Cianciulli-La saponificatrice di Correggio, con l’artista Dario Agrimi) e l’edizione 2016 (Dis-Orientarsi, collettiva di 7 artisti campani). Ideatore del programma radiofonico Cattivi Maestri presso l’Unisound dell’Università di Salerno nell 2015; In Albania, Tirana, ha curato la mostra CorpoeCorpi (2015); Sempre in Albania, ha tenuto due Seminari sul Futurismo e sull’intellettuale di tipo nuovo con l’Istituto Italiano di Cultura (2013), segnalato sul Corriere della Sera. È presente nella pubblicazione Al di là della destra e della sinistra (S. Giovannini e R. Guerra a cura di). Ha collaborato come critico d’arte per la Casa Editrice Iemme Edizioni di Napoli. Collabora attivamente per la rivista d’arte Exibart. È Consulente per la sezione “mostre” della Fondazione Plart di Napoli.

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