Noi che abbiamo ucciso Hannah Baker

di - 14 Giugno 2017
Perché una ragazza di oggi può uccidersi, titolava un celebre brano dei Baustelle (La Malavita), elenco delle cause banali che hanno condotto una ragazza qualunque al suicidio. Era il 2005, la società dello spettacolo fioriva in tutte le sue contraddizioni, mieteva fallimenti e vittime. Eppure, suggeriva la band italiana, «la causa scatenante, il motivo vero, siamo io e te, io che l’ho tradita tu che le sei stata amica».
Creata da Brian Yorkey, distribuita e prodotta da Netflix e basata sull’omonimo romanzo di Jay Asher, la serie televisiva 13 Reasons Why, sembra riproporre in forma filmica queste esatte parole. Prima di suicidarsi la liceale Hannah Baker registra sette audiocassette in cui riassume i tredici motivi che l’hanno condotta a tale decisione estrema e i nomi dei compagni di classe a cui tale azione è legata. A ricevere i nastri e a ripercorrere questa storia sono proprio i coetanei della ragazza, tra cui il timido Clay Jensen, di lei innamorato.
Nonostante la mancanza di pretese artistiche – quantomeno sul piano formale – e una struttura che ricalca i più classici teen drama, 13 Reasons Why è apparso come un fulmine a ciel sereno nel sempre più saturo panorama delle serie tv. Il crudo suicidio di Hannah legato ad atti di bullismo, voyeurismo e stupri, ha diviso il pubblico, innescato commenti sui social e un chiacchiericcio mediatico degno di nota. Da chi sostiene che la serie dovrebbe essere distribuita in tutte le scuole a chi la definisce moralista e piena di bruttezza, a chi la descrive come troppo adolescenziale fino a chi la ritiene addirittura “rischiosa per chi soffre di malattia mentale” e chi invece si è impegnato a farla analizzare integralmente da uno psicologo. La chiave di tutto questo interesse deriva certamente dai temi trattati dalle tredici puntate che compongono la serie, ma c’è di più.
In fondo a destabilizzare l’immaginario adolescenziale ci ha già pensato tanta produzione cinematografica, artistica e musicale. Basti pensare alla migliore produzione filmica di Sion Sono (Suicide Club, Love Exposure) con le sue patinature pop inzuppate di sangue, ad alcuni dei capolavori di Gus Von Sant (Elephant, Paranoid Park) o allo sguardo femminile e tagliente di Sofia Coppola. Anche i teen drama si sono adattati, negli ultimi anni, al racconto di un’adolescenza che non è più solo momento di crescita, di nefandezza e perdizione, ma anche di stupidità e violenza, passando dalla “pacatezza” di Beverly Hills prima e Dawson’s Creek poi alla frivola e insulsa audacia delle Gossip Girls di turno. 13 non ha niente della bastardaggine cool di queste ultime produzioni per adolescenti ma agisce, invece, su un piano di assoluta normalizzazione del terribile racconto che ne costituisce il soggetto: tempi lenti, un laconico trascinarsi di eventi già scritti, una colonna sonora che mescola successi indie/pop di oggi e di ieri e un serpeggiante silenzio che dalla prima puntata cresce negli occhi vacui di Clay fino a diventare assordante nella cruda rappresentazione finale del suicidio.
A chi parla questa serie tv? Agli adolescenti di oggi o a quelli di ieri? Ai giovani affascinati dalle tecnologie vintage o a chi ha vissuto il passaggio dai walkman agli Mp3, dai Cure a Grimes? Nonostante un’ambientazione temporalmente definita, tutti i personaggi del telefilm ricalcano uno stereotipo, un cliché senza tempo: sono pedine mosse per far accadere l’inevitabile. La loro violenza non ha niente a che vedere con la perdizione fighetta dei romanzi di Bret Easton Ellis, non nasce da un vuoto di fondo, ma è connaturata, è parte delle loro identità, del loro ambiente sociale.  A fuggire questa definizione è solo Clay, vero e unico protagonista del serial. La storia del suicidio di Hannah è, in fondo, la sua storia: quella di un ragazzino «con pareri agitati e occhi sempre arrossati» (per dirla alla Vasco Brondi) che affronta, attraverso una ballata romantica con la morte, la sua crescita, la definizione della sua sessualità, la scoperta dei giusti equilibri nei rapporti sociali, la definizione stessa di giusto ed ingiusto, la scoperta del “senso di colpa”.
Ed è proprio sul piano della “colpevolezza” che 13 ci riguarda, appassiona o infastidisce. Perché l’adolescenza, qui descritta senza nessun eccesso o provocazione ma al contempo senza ipocrisia, non ha più nulla a che vedere con il nostro “Tempo delle mele” (il ballo scolastico sporcato del sangue di Hannah ce lo dice chiaro e tondo) ma è invece quel tempo infame, attraversato da tutti, in cui non si sa quale valore abbia la vita e non è poi così chiaro se sia più importante accusare uno stupratore o difendere la propria condizione: quella di maschi in branco perennemente arrapati o di ragazzine per bene, di omosessuali appassionati di poesia o di sportivi, di darkettoni, sfigati cronici o intellettuali, giustizieri e difensori della morale.
È questo archetipo dell’adolescente “messo a nudo” che ci affascina e indispone, per un processo nostalgico, certo, ma anche e soprattutto in quanto immagine, riflesso, condizione del presente. Un tempo ossessionato dal proprio stesso edonismo e contemporaneamente divorato dai sensi di colpa, costruito su bullismi in grande scala, tra shit-storm, commenti feroci mascherati dall’ironia, fotografie sparse, rubate, spiate, scartate, commentate, condivise, e in cui ogni forma di analisi psicologica rischia di rivelarsi fallimentare. Lo stesso presente che uccide giovani donne diffondendo loro foto private e nel quale non è più tanto scontato che una vita umana abbia più valore della difesa di un confine inventato, delle proprie convenzioni o convinzioni.
Se 13 Reasons why è un oggetto unico nel suo genere è perché parla di tutti noi che abbiamo deciso di donare tempo e parole per definire, attaccare o lodare un teen drama; noi con le nostre parole di troppo o con quelle non dette per timore; noi e i nostri scroll su Facebook; noi che non abbiamo voluto o potuto agire; noi che abbiamo un’opinione affrettata su tutto e tutti;  noi così simili e così diversi da Clay.
Noi che abbiamo ucciso Hannah Baker.
Netflix intanto annuncia il proseguimento di 13 Reasons Why in una seconda imminente serie. Se il confronto con la morte (o con tutte queste morti) è stato veramente strumento di crescita e di accesso all’età matura, in fondo, lo scopriremo poi.
Matteo Antonaci

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