Se l’arte fa vroom vroom

di - 4 Novembre 2012

Salvatore Scarpitta (New York, 1919-2007) chiude la stagione 2012 delle retrospettive alla GAM di Torino. Newyorkese, di padre italiano e madre russo-polacca, Scarpitta cresce nella Hollywood degli anni Trenta. Nel 1936 parte per Roma dove si iscrive all’Accademia di Belle Arti e dove tornerà, dopo la guerra, nel 1948. E proprio in Italia inizierà la sua carriera artistica. Dopo il battesimo alla Galleria Chiurazzi di Roma, parteciperà alla Biennale di Venezia del ’52, del ’56 e del ’58. Il 1958 è anche l’anno della prima monografica alla Galleria La Tartaruga di Roma, e del sodalizio con il gallerista Leo Castelli, che seguirà, assecondandola, la parabola artistica, nonché la passione per le gare automobilistiche di Scarpetta, fino agli ultimi anni della sua vita. Non tarda, infatti, ad arrivare anche la prima esposizione negli Stati Uniti, nel ’59, proprio alla Leo Castelly Gallery.

Bisognerà attendere, invece, i “Roaring Sixties” per la realizzazione dei primi prototipi di auto da corsa esposti alla Warehouse di New York, che nel 1985 diventeranno, a Baltimora, perfettamente funzionanti.

Dopo la monografica alla Biblioteca Arturo Graf, contestualmente all’investitura della Laurea Honoris Causa che l’Università degli Studi di Torino gli conferì nel 2005, Scarpitta torna ora negli spazi dell’Exhibition Area e dell’Underground Project di via Magenta 31, dove resterà fino ad inizio febbraio 2013, con una fra le più grandi monografiche sin ora dedicategli, a cura di un comitato scientifico d’eccezione composto da Germano Celant, Fabrizio D’Amico, Danilo Eccher, Riccardo Passoni e Lugi Sansone.

Con la collaborazione della Fondazione Prada, della Collezione La Gaia e del MART di Rovereto, più di 60 opere sono confluite nelle sale della GAM torinese, testimoni indiscusse dell’evoluzione di uno dei maggiori rappresentanti delle vicende artistiche del dopoguerra.

Germano Celant ascrive il “procedere costruttivo” di Scarpitta nel territorio di un’arte “autoreferenziale” che, come egli stesso afferma nel testo d’introduzione al catalogo «trova un nuovo habitat per la sua arte, fuori da ogni mimetismo ed ideologia, da ogni desiderio di forma e di non forma, ma quale veicolo di un fare concreto e testuale, dove a valere è il tenere insieme il sistema delle cose e dei fatti, che non si nutrano né di proiezioni né di asserzioni, né di storia né di modelli dominanti, ma di un costruire che dà via a nuovi organismi».

Sebbene Scarpitta sia stato spesso associato al materialismo di Burri, cui sicuramente deve il suo tributo, di fatto egli possiede un dinamismo della tela che guarda all’instabile, al mutevole, per citare nuovamente Celant, al “processo”. Pur nell’utilizzo di forme linguistiche differenti il risultato è il medesimo: l’estremo dinamismo del reale, in presa diretta.

Il gesto del “tendere” la tela viene riconosciuto dall’artista stesso come un’azione di recupero di un’esasperazione poetica: «Fu un lavoro per ripulire quello che era stato un gesto abbastanza esasperato. Quella materia perduta in qualche modo dovevo ricuperarla, così ho ripulito questa idea che era abbastanza iconoclasta e ho portato la tela da una condizione malvagia ad una condizione più ‘surreale’, quasi astratta, dovuta alla tela cruda e grezza, non più strappata, ma tirata».

Ecco che la lunga sosta nella Roma del dopoguerra viene a rappresentare per Scarpitta il solo esordio di un percorso ben più esteso che svilupperà le sue premesse con il rientro negli Stati Uniti, nei primi Anni Sessanta.

Dai saggi del periodo poverista alle derive astratte, dalle auto da corsa alle tele estroflesse, Scarpitta congiunge l’arte alla vita in un unico abbraccio cogliendole entrambe alla sprovvista, immortalandole, come asserisce Luigi Sansone nel suo testo critico, «con la precisa freschezza tipica del vero artista che non distingue il presente dal passato, ma li sente sempre uniti e fecondi insieme di idee e ispirazioni inscindibili».

Al primo piano, l’Exhibition Area, presenta la serie di “slitte” e “sci” e i primi lavori a fasce degli ultimi anni Cinquanta, di cui la monografica alla Galleria La Tartaruga di Roma. Tra le “X Frames” sovrasta Gunners Mate del 1961, pala laica, totem astratto in cui la materia prima dell’arte, il telaio del pittore, si spoglia della sua veste di supporto per apparire, al rovescio, in tutta la sua struttura, senza mediazioni semantiche: pura forma, eterno simbolo. Già in queste prime tele ammicca l’autobiografismo dei materiali utilizzati: dalle bende, ai lacci, ai ganci, alle fasciature, sino alle cinghie di sicurezza irrompe l’universo formale di Scarpitta che nell’Underground Project sfocia nella serie delle auto da corsa.

Ed è proprio l’artista, con una video-intervista, ad accogliere il visitatore in questa seconda parte con un monologo pseudo-futurista, inno al pericolo e alla velocità dei circuiti automobilistici. Introdotti in un garage suburbano, si è travolti dai colori fulgenti delle rosseggianti lamiere delle vetture realizzate da Scarpitta nel suo studio di Baltimora. Tutte contrassegnate dal numero 59, in onore della prima mostra tenutasi da Leo Castelli a New York, complice assoluto del periodo delle “dirt track races”. «Allora i motori facevano così. Vroomm….oom» racconta l’artista in un’intervista del 2003. E questo è il rumore di fondo della sua stessa ossessione.

Automobili e tele dialogano, negli spazi sotterranei della GAM, rinviandosi echi di una poetica libera, priva di retorica e, a tratti, nevrotica. Ecco che Over the Fence, 1962 rimanda a Sal Ardun Special, 1964-83, così come Racer Roller (Roller Board), 1963 a Sal’s Red Hauler Special, 1966-67. Quello di Scarpitta è un dialogo con se stesso e con le proprie passioni, prima ancora che con il mondo, che incanta e conquista per coerenza e spessore culturale.

In conclusione, la risposta ad una domanda che venne fatta all’artista in una delle ultime interviste rilasciate «Why the wheel? Why wheels? Why wheels? » traslato in un banale «Perché le auto?», potrebbe essere: perché, per i grandi, “vivere” è “guidare”.

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